Mi svegliarono nel cuore della notte, poco prima stavo sognando che con Bajin eravamo nel fiume Dogor a pescare cosi tanti pesci che potevamo regalarli perfino agli altri abitanti del villaggio e porre fine alla fame che ci mordeva lo stomaco da settimane.
di Simone Cupellaro
Da diverso tempo il cibo cominciava a scarseggiare, il raccolto diventava arido come la terra in cui cercava di crescere. Non pioveva da mesi e anche il fiume si era quasi del tutto asciugato al punto che sembrava una strada che non avremmo mai voluto percorrere.
Mia madre fu la prima che vidi quando aprii gli occhi, mi disse di sbrigarmi perché loro stavano arrivando. Cosi quel sacco riposto da tempo accanto alla finestra, che conteneva qualche tozzo di pane secco e alcune monete, acquistò un senso vivo come il cuore che mi batteva. Un paio di mesi prima quando i miei genitori andarono nella piccola città della nostra regione, distante alcune ore di cammino, avevano saputo che i militari ribelli stavano rastrellando i villaggi in cerca di giovani soldati da arruolare. Fu allora che quell’idea di partire per sfuggire ad una vita dura come le pietre del monte Valim prese corpo. Quando me ne parlarono non feci un fiato, non emisi una parola, ascoltai in silenzio i loro discorsi e capii con un dolore che mi riempì le viscere che non c’era altro da fare, era diventato inevitabile.
Mi alzai da terra in un attimo, sentivo da fuori le voci dei militari che diventavano sempre più nitide. Mia madre mi salutò con le lacrime che rendevano il suo viso luminoso come la luna, mio padre si trattenne e mi disse che era arrivato il momento di andare. Il suo sguardo profondo come la valle degli spiriti dei nostri antenati rimase per sempre impresso nei miei ricordi. Saltai dalla finestra correndo così veloce che in un attimo mi ritrovai al punto della collina stabilito con Bajin. Decidemmo di fare insieme il viaggio per una vita diversa da quella che c’era stata assegnata. Eravamo nati nello stesso villaggio, avevamo fatto anche qualche anno di scuola prima che la situazione peggiorasse, poi fummo costretti ad aiutare le famiglie per sopravvivere. Le difficoltà però ci univano, ogni occasione era buona per ritrovarci e immaginare cosa avremmo potuto cambiare.
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Ancora non era arrivato, le preoccupazioni aumentavano di secondo in secondo. Dalla sensazione di rapidità vissuta durante la corsa mi ritrovai ad una dilatazione del tempo che mi faceva impazzire. Proprio quando stavo perdendo le speranze Bajin saltò fuori, lo sguardo di chi era sfuggito a qualcosa di pericoloso. Non ci dicemmo nulla, l’incontro dei nostri occhi bastò per andare via correndo lungo il letto asciutto del fiume. Passarono i mesi, attraversammo diversi paesi e incontrammo molte persone. C’erano momenti in cui ci fermavamo per lavori occasionali, raccimolare qualche soldo e poi ripartire a piedi o con qualche passaggio di fortuna pagato con i pochi risparmi. Durante il cammino dovevamo stare molto attenti, ci avevano avvertiti di bande armate pronte a rapire e ricattare per poco. Ancora più forte però era la mancanza dei nostri affetti, della nostra terra e la paura di perderli per non so quanto tempo. In quei momenti avevo il volto scuro e le mie orecchie non sentivano altro che la nostalgia delle donne al mattino, quando ancora c’era ombra e il caldo non ti soffocava, che cantavano per andare a prendere qualche goccia d’acqua nel pozzo oppure il suono delle vanghe degli uomini che cercavano di coltivare i pochi semi rimasti. Era Bajin che mi risollevava dall’oscurità in cui mi perdevo mostrandomi il ciondolo di legno che incidemmo il giorno in cui parlammo della possibilità di partire per invertire le rotte dei nostri destini e quelle dei nostri cari.
Dopo un lungo viaggio, il giorno atteso giunse in primavera, eravamo arrivati da qualche settimana nella zona della costa e stavamo aspettando che il mare ci offrisse la sua quiete. Nel frattempo lavorammo come manuali nella costruzione del nuovo impianto sportivo che doveva ospitare delle gare internazionali. Giorni e giorni a impastare polveri di colori che non avevo mai visto, dalla mattina alla sera, per pochi spiccioli e tanto sudore. Partimmo all’alba, i raggi del sole avevano appena iniziato ad accarezzare le acque. L’imbarcazione era fatiscente e in poco tempo si era riempita di un’umanità proveniente da luoghi diversi ma accomunata dal desiderio di lasciarsi alle spalle una vita colma di impossibilità. Finalmente salpammo, attaccati l’uno all’altro, con la brezza marina che ci attraversava i capelli. Il cielo non prometteva nulla di buono, col passare delle ore si era oscurato e il mare sembrava come un lungo serpente in movimento.
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Bajin stava male, le onde impetuose gli avevano fatto rigettare il pasto della sera prima dandogli un aspetto moribondo. Fu allora che le cose precipitarono. Ad un tratto un’onda gigante ci inghiottì facendo ribaltare la barca. Cademmo tutti in acqua, da sotto vidi gambe e braccia agitarsi invano, da sopra le voci disperate si unirono alle urla del mare in tempesta. Intorno a me volti smarriti e un terrore feroce mi assalì: Bajin! Chiamai il suo nome mille volte a squarciagola, cercando di non ingoiare l’acqua salata che mi veniva addosso. Tentai di aggrapparmi con tutte le mie forze all’immagine sulla collina: adesso spunterà fuori di nuovo dal nulla! Non avvenne, il mare si era preso tutto: speranze, desideri, progetti, fatiche e con loro anche il mio caro amico Bajin.
Una sensazione di incredulità mi aveva rapito. Improvvisamente tutto il fragore intorno a me aveva ceduto il posto ad un silenzio soffocato, era come se mi fossi distaccato dal mio corpo. Non so quanto tempo rimasi in quello stato, forse ore, minuti, secondi. Poi mi presero in due, venivano da una barca grande, dai colori nuovi, piena di luci. Con me vi erano altri pochi sopravvissuti, ci diedero delle coperte per asciugarci parlandoci in una lingua sconosciuta. Quello fu il segno che ero giunto nel mondo nuovo.
Ogni anno molte persone, spesso anche minori non accompagnati, migrano per cercare di sfuggire a guerre, violenze, carestie, miseria e in generale a condizioni di vita difficili. Lasciano i loro cari, le amicizie, la cultura di appartenenza per affrontare anche lunghi viaggi, a volte densi di pericoli, allo scopo di trovare nuove possibilità. Fa parte della natura dell'essere vivente, muoversi e cambiare per migliorare la propria vita. Nel corso della storia molti popoli hanno svolto questo processo che sembra avere un moto circolare. Gli animali seguono la stesso nostro destino, ovvero si spostano per adattarsi a condizioni più favorevoli. Migrare però, è una condizione complessa, che se da un lato mobilita risorse ed energie dall'altro espone le persone ad una moltitudine di potenziali vulnerabilità prima, durante e dopo il viaggio. La partenza rappresenta un miscuglio intrecciato di speranze e dolori, abbandonare tutto ciò che un tempo forniva senso al proprio esistere per dirigersi verso qualcosa di ignoto e a cui si è riposto il desiderio di cambiamento del progetto migratorio. Il durante a volte dura poco ma in altre circostanze costituisce uno stato di sospensione che può continuare mesi o anni, in cui possono accadere eventi traumatici che lasciano cicatrici sia visibili che invisibili. Giunti nelle nuove terre bisogna, in seguito, fare i conti con una lingua sconosciuta che impedisce di comunicare al meglio, di capire e farsi capire, di dare e ricevere, di scambiare. Bisogna affrontare la perdita dei legami significativi, delle proprie coordinate culturali, delle tradizioni, delle sicurezze, degli schemi relazionali conosciuti per acquisirne dei nuovi, diversi, estranei cercando poi di farli coesistere. Tutto ciò comporta un processo di adattamento difficile, una sensazione di non appartenenza, che spesso può richiedere l'apporto di uno spazio psicologico per poter dare voce alle ferite, affrontare le perdite, promuovere il processo di integrazione tra radici e mondi nuovi. Al centro "Eppur si muove" di Velletri, nato per promuovere il benessere psico-fisico e la sensibilità culturale, mi occupo (oltre a valutazioni psicodiagnostiche e psicoterapia) di sostegno psicologico a minori e adulti di origine straniera di prima o seconda generazione.
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