Esaminiamoli ora in ordine, cominciando dalla Primavera: I tre personaggi che con le verghe battono la pelle tesa di un animale stanno compiendo il rito antichissimo dei «Mamuralia».
di Ciro Oliviero Gravier
Gruppo Archeologico Veliterno
Il termine deriva da Mamurius Veturius, il leggendario artigiano che, su ordine del re Numa Pompilio, compose undici scudi in tutto simili a quello (l’ancile) che il re aveva ricevuto da Marte come pegno dell’eterna salvezza di Roma: in tal modo i nemici, qualora avessero voluto sottrarlo, non potevano individuare quello vero. I dodici scudi sono in relazione ai dodici mesi della riforma del calendario voluta dal re che ai dieci mesi del vecchio anno lunare aggiunse Gennaio e Febbraio, posti in coda a Dicembre. Bisogna inoltre ricordare che il dio Marte, cui è dedicato questo primo mese dell’anno, prima di essere associato all’Ares greco, quando ancora si chiamava «Mavors» o «Marmor» era una divinità italica legata alla vegetazione e ai fenomeni naturistici (fulmini, tempeste), invocata dai Fratres Arvales nel loro arcaico carmen. A protezione dei dodici scudi Numa istituì un apposito ordine di dodici sacerdoti, i Salii. Costoro, alle Idi di marzo (ad Idus Martias), che era il 15 del mese (capodanno del vecchio calendario), ricordavano l’antico Mamurio con un canto in suo onore, mentre correvano rumorosamente per la città armati di tutto punto e percuotendo gli scudi con le lance. Era la festa dei «Mamuralia». A livello popolare, Mamurio era rappresentato come un vecchio vestito di pelli il quale impersonava l’anno trascorso, che veniva cacciato dalla folla a colpi di bastone. Ma la festa segnava anche il passaggio dal tempo di pace al tempo di guerra e, pertanto, quello dei cittadini romani da civili (cives) a soldati (milites). Il battere per preparare le pelli con delle verghe allude alla costruzione degli scudi che una volta erano delle pelli di animali tese su una cornice di legno robusto. Che questo antichissimo rito si fosse mantenuto integro nel corso dei secoli e si fosse esteso a tutto l’impero è certificato dal calendario detto di Philocalus, risalente all’anno 354 (ossia a più di un secolo dopo il nostro mosaico), il quale colloca questa festa alle Idi di marzo. Aprile era dedicato a Venere, che seguiva il suo amato Marte (marzo). I due che danzano dinanzi alla statua di Venere agitando dei rami di mirto stanno festeggiando i «Veneralia», che cadevano il 1° aprile (ad Kalendas Apriles). La festa era dedicata a Venere Verticordia ("che apre i cuori") e al suo compagno, Fortuna Virile. Quel giorno le donne, che fossero vergini, maritate o prostitute, si recavano al tempio della dea, ne effettuavano il lavaggio sacrale della statua, che ricoprivano poi con gioielli e collane di rose. Ne parla Ovidio nel IV libro dei Fasti: «Madri e nuore latine, e anche voi che non portate benda né lunga veste, venerate ugualmente la dea… la dea è tutta da detergere… offritele rose novelle e altri fiori. Ella vuole che anche voi vi laviate sotto un verde mirto”. Le relative scene sono superbamente riprese in altri due celebri mosaici: quello della donna nuda che sparge rose del museo di Cartagine, e quello della personificazione della primavera (una donna nuda, probabilmente la stessa Venere) incoronata e circondata da rose che ella stessa coglie per riempirne il kalathos del famoso «Trionfo di Nettuno» del Bardo. Dopo di che, le donne, ricoperte solo di mirti (al pari della dea quando fu sorpresa dai satiri mentre era nuda al bagno) si recavano ai bagni maschili, lasciati vuoti per l’occasione. Qui, denudatesi, offrivano incenso alla Fortuna Virilis per ottenere che gli uomini non notassero i loro difetti fisici e si comportassero bene nei loro riguardi. Infine bevevano il «cocetum», una bevanda composta di latte, papavero pestato e miele di favo (la stessa bevuta da Venere il giorno del suo sposalizio con Fortuna), che le trasportava nel sonno e nell’oblio. A questa festa gli uomini partecipavano per conto loro danzando e suonando i crotali dinanzi ai templi della dea, come nel quadretto del mosaico. Il 15 maggio («ad Idus Maias») era festeggiato a Thysdrus con il sacrificio di un ariete il natalis di Mercurio, patrono della città. E’ quello che sta compiendo il personaggio del riquadro. La statua, posta su un piedestallo e addobbata con rami, rappresenta il dio secondo un modello classico: nudo, con sul capo il petaso (il cappello a larghe falde tipico dei viandanti), sul braccio la clamide, e calzari alati ai piedi, il caduceo (una verga alata con due serpenti attorcigliati, simbolo di pace e attributo dei messaggeri, ricevuto in dono da Apollo quando fu inviato da Zeus a negoziare con Ade la restituzione di Proserpina) nella destra e la borsa nella sinistra; accanto si trova l’ariete che il devoto si accinge a sacrificare su un’ara dirimpetto alla statua. Nell’Africa romana, Mercurio viene ad aggiungersi alla coppia fenicio-punica di Caelestis e Saturno: nell’ambito di questa triade, egli rappresenta e protegge il mondo produttivo-commerciale. Per averlo scelto come suo patronus, la città di Thysdrus viveva evidentemente di commercio, prevalentemente agricolo. Si era, infatti, specializzata nella produzione e nell’esportazione dell’olio di oliva: secondo l’espressione di Gilbert Charles-Picard, era diventata «la capitale de l’huile» della Byzacena, favorita com’era da un reticolo di ben sei efficienti strade romane che si dipartivano a stella da essa verso tutte le direzioni, e i cui numerosi e ben mantenuti diverticula raggiungevano le numerosissime proprietà private (finora ne sono state portate alla luce una trentina) dove l’agricoltura veniva praticata su larga scala e con metodi razionali. Esse non solo permettevano alle legioni di spostarsi agevolmente e con rapidità, ma anche ai contadini e artigiani berberi di raggiungere la città per vendervi, nei giorni di nundinae, i loro prodotti (grano, vino, ulive, frutta, datteri, miele, formaggi, harissa, uova, pollame, ovini, e poi cesti, canestri, stoffe, tappeti, henné...). Era, insomma, la vera capitale economica della regione. A meno di 40 km dal mare, in una posizione vantaggiosa su un altopiano che è il passaggio diretto da nord a sud e dalla costa verso l’interno, era il centro urbano più comodo e meglio allestito per accogliere l’intenso traffico di uomini e merci in transito di import-export, di cui una buona parte veniva acquistata e restava in città. È da credere, pertanto, che il padrone della splendida dimora che conteneva il nostro mosaico fosse un grande proprietario terriero e insieme un grande commerciante, un ricco uomo d’affari interessatamente e convintamente legato alla società e alla civiltà romana, da cui traeva ogni genere di benefici e di cui seguiva con vanto ed ostentazione le tradizioni e i riti. E non è da escludere che la scena del sacrificio a Mercurio rappresentata dal riquadro del mosaico si svolga all’interno della sua opulenta villa, e che il sacrificante sia proprio il padrone di casa. Infatti il sacrificio avviene dinanzi a una statua e non in un tempio, in un ambiente agreste e non urbano, e alla presenza di un solo attore e non di una folla di devoti.