Passando alla seconda parte, Augusto enumera i soldi spesi in ogni tipo di liberalità, cominciando dai 300 sesterzi pro capite alla plebe di Roma, che Cesare aveva lasciato per testamento e che Marcantonio aveva irresponsabilmente omesso di eseguire, al risarcimento ai municipi dei terreni confiscati per assegnarli ai veterani (in totale 860 milioni di sesterzi), all’aiuto con denaro suo all’erario che si trovava a secco (150 milioni di sesterzi in quattro volte), alla buonuscita per la prima volta in assoluto ai soldati (170 milioni di sesterzi) …
di Ciro Oliviero Graver
Gruppo Archeologico Veliterno - Terza Parte
E poi la monumentalizzazione dell’Urbe (il Campidoglio, il Foro, il Circo Massimo, il Palatino, il restauro di 82 templi, basiliche, teatri, acquedotti …) E poi spettacoli gladiatori, spettacoli di atleti, ludi, cacce di belve (ne perirono circa tremila cinquecento), naumachie … Certo, Augusto partiva da una buona base, che era la ricchezza accumulata da suo nonno usuraio velletrano e ben gestita e moltiplicata da suo padre banchiere veliterno, ma ciò non può bastare per giustificare i calcoli fatti dal Prof. Ian Morris dell’Università di Stanford, il quale ha calcolato che egli possedesse da solo un quinto del valore economico dell’Impero Romano (che corrispondeva a sua volta al 25-30% della ricchezza mondiale). Insomma, secondo il Prof. Morris Augusto possedeva 4,6 migliaia di miliardi di dollari (valore del 2014). Da dove provenivano tutti questi soldi? In primo luogo, senza dubbio, dal patrimonio della sua famiglia, poi da estesi latifondi in ogni parte dell’impero e da grandi patrimoni (mobili, immobili e soldi liquidi) confiscati nel corso del tempo, dalle rendite dell’Egitto (che era di fatto un possedimento personale), dall’appalto – attraverso dei prestanome – delle riscossioni delle tasse, dai vari commerci esercitati in condizione di quasi monopolio, dal numero incalcolabile di schiavi e infine dai bottini di guerra. Bisogna tuttavia riconoscere ad Augusto il merito di aver saputo bene amministrare questa immensa fortuna e di averla anzi largamente utilizzata per sovvenire ai bisogni e ai divertimenti del popolo e alle necessità dello Stato. Il documento si chiude con l’elenco quasi infinito e in parte addirittura fiabesco – e comunque sempre reale – delle grandiose res gestae da lui compiute. Dopo la vittoria sui pirati (i quali, però, altri non erano che i figli di Pompeo che strenuamente si era opposto a Cesare), quello che gli importa di mettere subito in chiaro è che “tutta l'Italia giurò spontaneamente sulle mie parole e chiese me come comandante della guerra in cui vinsi ad Azio”. Anche qui se n’esce con una frasetta di grande effetto, che in latino è ancora più efficace (Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua et me belli quo vici ad Actium ducem depoposcit). Questo effettivamente avvenne nel 32 a.C. quando, con un plebiscito extra-costituzionale, l’Italia e le province occidentali dell’Impero pronunciarono un giuramento militare (arbitrariamente esteso a tutta la popolazione civile) nominandolo dux per la guerra che stava per scoppiare contro Cleopatra e Marcantonio, e lui fece in modo che il Senato la dichiarasse a Cleopatra, che era una straniera, e non anche a Marcantonio, cittadino romano, onde evitare la ripresa e anche il nome di una guerra “civile”. Le parole di Augusto sulle quali giurarono l’Italia e le province erano quelle da lui pronunciate in Senato quando lesse il testamento di Marcantonio, sottratto per altro sacrilegamente, alle Vestali. Il testamento lui lo lesse, guardandosi bene dal mostrarlo (quello che poi alla fine si vide obbligato a mostrare era manipolato). In realtà, in buona parte lo falsificò inventando cose che nel testamento non c’erano, come la genuinità della discendenza di Cesarione avverso la spuria filiazione di Augusto o la volontà di Marcantonio di essere seppellito ad Alessandria, quasi quella città e non Roma fosse la capitale dell’Impero … Non è credibile, infatti, che Marcantonio lasciasse a Roma, sia pure in mani ritenute inviolabili, uno scritto così compromettente per lui: la cosa era talmente poco credibile che Augusto, infatti, dovette mettere in giro la voce che Marcantonio era drogato da Cleopatra e che non era più padrone di se stesso. Da qui in poi Augusto elenca i suoi successi, omettendo scrupolosamente qualunque insuccesso: neanche una parola, ad esempio, sul disastro di Teutoburgo. Procede come se parlasse aiutandosi con una carta geografica dell’orbis terrarum e delle terrae incognitae: • l’estremo nord-est: “La mia flotta navigò attraverso l'Oceano dalla foce del Reno verso la terra del sole levante fino ai confini dei Cimbri, dove né per terra né per mare prima di allora nessun romano era giunto”. Si tratta di una spedizione che, partendo dalla foce del Reno, Paesi Bassi attuali – dove terminava il territorio dell’Impero romano - risalì dapprima il Mare Frisicum e forse circumnavigò lo Jutland nell’anno 5 d.C., facendo poi ritorno alla base, che era il porto di Lugdunum Batavorum, oggi Katwijk-Brittenburg; • il profondo sud e l’estremo sud-est: “Per mio comando e sotto i miei auspici due eserciti furono condotti quasi contemporaneamente in Etiopia e nell'Arabia che è chiamata Eudèmone (Felice), e grandissime schiere nemiche dell’una e dell’altra popolazione furono uccise in battaglia, e parecchie città conquistate. In Etiopia si arrivò fino alla città di Nabata, di cui è vicinissima Meroe … In Arabia l'esercito avanzò fin nel territorio dei Sabei, alla città di Mariba”. Si tratta di due distinte spedizioni. La prima spedizione (anni 30-29 a.C.) fu una doppia spedizione punitiva contro le tribù dell’estremo sud dell’Egitto appena conquistato. Il prefetto Caio Gallo avanzò fino a Philae, al livello della prima cataratta, dove istituì uno stato-cuscinetto che da lì si estendeva a sud per 300 km fino alla seconda cataratta. Poi, partito lui per l’Arabia, ci fu una seconda rivolta, condotta dalla regina di Kush Imanarenat, che represse il nuovo prefetto Caio Petronio: questi avanzò fino a Napata (sulla quarta cataratta) che distrusse; andò oltre fino a Meroe (sulla quinta cataratta) che non riuscì a prendere. La seconda spedizione ebbe luogo negli anni 25-24 a.C., quando prefetto dell’Egitto era ancora Caio Elio Gallo, il quale allestì una flotta di più di 200 navi e più di 10.000 uomini. La navigazione prima e la marcia poi furono rese difficili dai banchi corallini e da una guida infida. Salpata da Cleopatris (attuale Suez), la flotta ormeggiò sulla sponda opposta del Mar Rosso nel porto nabateo noto col nome greco di Leukè Kome (Villaggio Bianco), da dove, passato l’inverno, gli uomini si misero in marcia e, raggiunta finalmente la città di Mariba dei Sabei (oggi Marib, nello Yemen), vi posero l’assedio, che tolsero sei giorni dopo a causa dell’assoluta mancanza di acqua. Forse procedettero ancora un po’ oltre, fino ad Athlula, e tornarono indietro. Quello che Augusto presenta trionfalisticamente come un successo, fu dunque in realtà un totale insuccesso, se si esclude la relazione puntuale e i disegni dettagliati che Elio Gallo ne fece e che consegnò al suo amico Strabone, oltre che – ovviamente – ad Augusto.