Nell’anno 9 d.C., continuando questa strategia, Varo, accompagnato sempre dal fido Arminio, che conosceva i luoghi e la lingua, era giunto nella zona dell’attuale Porta Westfalia sull’Elba (confine orientale), vi aveva fatto impiantare un accampamento stabile (castra stativa: mura di pietra con torri invece di palizzate, case di mattoni in luogo di tende, ospedale, magazzini, officine, stalle, cisterne) e vi aveva installato una guarnigione.
di Ciro Oliviero Gravier
Gruppo Archeologico Veliterno
Parte Seconda
Doveva essere il primo nucleo di una futura città romana che si sarebbe chiamata Augusta. Finita l’estate, agli inizi di settembre l’esercito (tre legioni, sei coorti e tre alae di cavalleria: in totale 25.000 uomini, più l’abituale corteo di donne, bambini, mercanti, carri e animali) si mise in marcia per fare ritorno alla base sul confine occidentale e precisamente ai Castra Vetera che dovevano diventare la capitale della provincia. Fu a questo punto che Arminio cominciò (o meglio: continuò) a fare il doppio gioco: pur continuando a mostrarsi fedele e efficiente ufficiale dell’esercito romano, aveva progettato con i suoi Germani un’imboscata fatale per i Romani. Perché avesse cambiato atteggiamento non si sa, ma si può ritenere che abbiano giocato un ruolo importante più fattori insieme: la sua riscoperta e recuperata identità germanica, delusione del comportamento dei Romani verso i suoi, il desiderio di comandare sui suoi Ceruschi e forse anche su tutti i Germani, qualche rivalità con Varo … Fatto sta che egli conduce l’esercito per un percorso assai diverso da quello dell’andata, attraverso boschi fitti dagli alberi altissimi, acquitrini e guadi che lui conosceva benissimo perché era proprio il territorio dei Ceruschi, in modo che arrivino non compatti e già sfiniti sul luogo dell’agguato, oltre il Weser, nelle terre dei Bructeri. Piove, tira vento e c’è nebbia. I soldati avanzano, stirati su tre km e mezzo, su una striscia di terra lunga sei kilometri: acquitrini a sinistra, colline di boschi sulla destra. L’attacco è improvviso e violento. I legionari non hanno spazio per muoversi e disporsi secondo le collaudate tecniche di battaglia. Quelli che riescono a farsi strada verso nord, vanno a finire dritti dritti nella grande palude. Alla fine della giornata, le perdite sono già enormi. L’indomani il grosso riprende il sentiero, ma esso era stato deviato e finiscono in un’altra trappola. Si combatte e si muore per tutta la giornata, senza tregua, dall’alba al tramonto. E sempre la pioggia, il fango e la nebbia. Il terzo giorno è la fine. Un gruppo riesce solo, mentre gli altri sono fatti a pezzi negli scontri, ad allestire un sembiante di accampamento con i carri, ma sono presto travolti. I più fortunati sono quelli che muoiono nella battaglia o si suicidano. I prigionieri fecero una fine ben più atroce: a chi furono cavati gli occhi, a chi furono cucite le labbra dopo aver avuto la lingua strappata, moltissimi furono impiccati, molti inchiodati agli alberi, molti altri scannati, altri infine furono lasciati morire orrendamente mutilati. Varo si suicidò. Due aquile di due legioni furono catturate. La terza fu distrutta dall’aquilifer stesso perché non cadesse in mano ai nemici. Furono solo poche decine quelli che riuscirono a mettersi in salvo raggiungendo gli accampamenti sul Reno. Ma anche questi accampamenti, privi ormai di soldati, caddero in mano ai Germani. La battaglia di Teutoburgo segnò per sempre la fine della penetrazione e della presenza romana in quelle terre. Da quella vittoria sui Romani, la Germania perse otto secoli di civiltà prima che Carlomagno non intervenisse a sua volta …