Riceviamo e pubblichiamo dal professor Marco Nocca, referente dell'Accademia delle Belle Arti, sede di Velletri, un contributo sul centocinquantesimo anniversario della nascita di Juana Romani. La pittrice veliterna, già al centro dell'attenzione con diverse pubblicazioni anche sulla nostra testata, sarà oggetto di una serie di iniziative proprio in collaborazione con l'Accademia delle Belle Arti veliterna.
di Marco Nocca
In concomitanza con il 150° anniversario della nascita della pittrice Juana Romani (Velletri, 1867-Suresnes, 1923) esce un volumetto di Gabriele Romani, dal titolo Juana Romani: il corpo e la patria, stampato in maniera indipendente con giovanile baldanza presso Blurb, Lightning Source, Milton Keynes, UK. Velletri dal 1901 ha reso onore a questa sua figlia, dedicandole in vita, al culmine della sua fortuna parigina, la Scuola serale di Disegno applicata alle Arti, poi Istituto Statale d’Arte, oggi Liceo artistico, con antica sede sulla “via Corriera” (Corso della Repubblica), non più destinata alla didattica. Juana Romani ha ricambiato la stima e l’amore dei suoi concittadini, con donazioni in denaro ai poveri, permettendo a ragazzi dotati ma indigenti della città di poter studiare Arte, e con alcuni regali eclatanti: una delle prime macchine per il cinematografo, attualmente dispersa, consegnatale da Antoine Lumière, fotografo lionese padre dei mitici fratelli inventori della Settima Arte. Il suo internamento in manicomio ad Ivry-sur-Seine nel 1906, deciso dal suo maestro e compagno Roybet (la vicenda si specchia negli stessi anni nel caso analogo di Camille Claudel, impazzita sotto lo sguardo impotente e distaccato di Auguste Rodin), interrompe i sogni di Juana, e le relazioni con la sua città d’origine. A Velletri giungeranno solo alcuni dipinti della Romani: la maggior parte di essi è oggi custodita da musei e collezionisti in Francia, ma anche negli Stati Uniti e in Argentina. Non riuscirà a prendere forma la pinacoteca di “grande arte moderna” che Juana aveva promesso al sindaco Barbetta, da realizzarsi nel Palazzo Pubblico. La Romani muore dimenticata nella casa di cura Château de Suresnes nel giugno 1923, e ivi sepolta due anni più tardi. Ma chi era veramente Juana Romani? Quali sono le ragioni della sua rapida ascesa verso il successo, e dell’altrettanto veloce oblio, in quel primo ventennio del Novecento, per lei immerso nelle nebbie della follia? Come possono inquadrarsi le vicende che la riguardano nel contesto parigino dell’epoca, tenendo presente l’atteggiamento della Romani, che rifiutò sempre di essere considerata un’artista francese? Quale terribile dicotomia cresce e si sviluppa nella sua mente, dal 1903 sempre più divisa tra il Corpo che l’ha resa celebre (da pittrice si è quasi sempre autoraffigurata e proiettata nelle figure storiche dipinte) e quella Patria lontana, a cui vuole appartenere nella designazione geografica degli artisti delle grandi Esposizioni Universali, o delle Biennali veneziane, con opere significativamente in contrasto con il contesto artistico della Penisola? A queste, ed altre domande, tenta per la prima volta di rispondere Gabriele Romani, in un saggio non specialistico, dalla struttura non sempre ordinata, ma forse anche per questo dotato di forte capacità di racconto, che ha il merito di far emergere una notevole messe di dati, riguardanti la fortuna parigina della Romani, analizzati oltre che nei cataloghi d’arte e nei giudizi della critica, nelle riviste d’epoca.
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Nata nel 1867 a Velletri, città tra la pianura pontina e la campagna romana, da Marianna, sarta e da un padre brigante che la abbandona, la piccola Juana è adottata dal nuovo marito della madre, Temistocle Romani, notabile del luogo, che scappa a Parigi con Marianna e la bambina. All’arrivo della famigliola, nel 1877 la Ville Lumière vive la piena frenesia dei tempi descritti da Baudelaire: soltanto tre anni prima lo studio del fotografo Nadar ha ospitato la prima mostra degli Impressionisti, che, dileggiati all’inizio dalla critica, diverranno i progenitori della pittura moderna. Un’altra strada nella foresta intricata della pittura francese di allora indica una direzione, capace ugualmente di stupire il pubblico mescolando tradizione e gesto eclatante: il Déjeuner sur l’herbe, del grande Eduard Manet, rifiutato al Salon del 1863, mette in scena in un contesto iconografico antico, un Giudizio di Paride da Raffaello, la scampagnata domenicale della Parigi dell’epoca, con gentiluomini borghesi che conversano amabilmente con la loro Ninfa nuda. In questo alternarsi di colpi di scena, la pittura di Storia, già portata in primo piano dai Salons nei decenni precedenti, continua la sua fortuna, avallata dalla critica più tradizionalista, e col successo di mercato tributato dai collezionisti borghesi, destinato a concludersi solo al giro di boa del secolo. A quest’ultimo filone appartengono i due pittori di successo che Juana incontra sulla sua strada, importanti per orientarla nel mondo parigino: Jean-Jacques Henner (1829-1905) e Ferdinand Roybet (1840-1920). Nell’Atelier des Dames di Henner e Carolus-Duran, e nello studio di Roybet di Place Pigalle, Juana adolescente negli anni Ottanta muove i primi passi nel mestiere di modella: una sorte comune a decine di giovani povere, provenienti dalla campagna romana, che alla bellezza del loro corpo affidano la fortuna. Nei dipinti di Henner e di Roybet di quegl’anni emerge il fascino di quella ragazzina italiana, dal corpo giovanile ma formato, il viso birichino e sensuale al tempo stesso, con la fossetta sul mento, i capelli dai riflessi rame, giunta a Parigi per tentare la sorte e consacrarsi alla pittura. Nell’arco dello stesso decennio diviene allieva di Henner, poi di Roybet (in Francia le donne verranno ammesse a corsi regolari di Disegno in Accademia solo nel 1902). Juana, grazie alle sua grandi capacità di osservazione, al suo talento e ai suoi maestri (di Roybet diviene compagna di vita dal 1892, nonostante egli sia sposato), approda a una piena maturità stilistica, che le permette di esporre ai Salons (il primo è del 1888 con “Gitane”, l’ultimo del 1904), alle Esposizioni Universali (1889, medaglia d’argento hors-concours; 1900) nella sezione italiana con Boldini, Mancini, Michetti, Sartorio, Segantini, alle Biennali Internazionali d’Arte di Venezia (1901), alla mostra d’arte di Torino nel 1913.
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La sua notorietà di artista donna avrà poche eguali in Francia e Juana sarà antesignana testimonial di prodotti per signore, le cui réclames campeggiano sulle riviste (Lagrange 2017). Le protagoniste dei suoi dipinti sono soltanto donne, avvolte in un’aria decadente, a volte segnate dall’emergere prepotente di un potere femminile incontrollabile, legato alla seduzione. La Romani, dopo aver posato per anni, in quasi tutte le sue opere prende a modello se stessa: dipinge personaggi della tradizione giudaico-cristiana (Salomè, Giuditta, Erodiade, Maddalena), donne del Medioevo bizantino dai richiami dannunziani (la “Figlia dell’imperatrice Teodora”, 1898, figure letterarie della nostra tradizione cavalleresca (“Angelica”, 1898) o eroine “moderne”, come Bianca Cappello, finita sulla copertina dell’Art français (1892). Nella “Pensierosa” , ispirata ad una poesia di Louise Colet, l’artista al Salon del 1894 ottiene un grande successo di pubblico, e una prima vera consacrazione. Il dipinto, già comparso in forma leggermente differente sulla copertina di Paris-Noël nel 1893, è talmente noto da essere realizzato in una propria versione da Henner, suo maestro (oggi a Mulhouse). La critica francese, passata in rassegna in modo esauriente da Gabriele Romani, riconosce a Juana una bravura tecnica degna dei grandi maestri del passato, si entusiasma per il trionfo del colore, vivo nelle carni e sulle stoffe. Al Salon del 1894 il grande Gustave Geffroy, autore del primo sistematico studio sui pittori impressionisti, scrive: “m.lle Juana Romani schiaccia tutto il resto, con la sua adorabile testa d’infante; e ancora di più con la sua Pensierosa, vestita da drappi di ricche stoffe, di una maestria sorprendente” (Le Journal, 1894). O Emile Trogan: “davanti alla sua Pensierosa, il pubblico applaude, e si dice che lei non ha paura di competere con Velazquez” (La semaine des familles). Un altro filone riguarda le eroine di opere letterarie o in musica contemporanee, come la sensuale Fior d’Alpe (Salon,1896), protagonista dell’opera di Alberto Franchetti messa in scena a Parigi nel 1895. Molto amata dalla Romani, che si rispecchia nel suo destino di giovane che viene dal paesello, Fior d’Alpe, con quel fiore delle sue montagne nei capelli è un’innocente, sospesa sul baratro della sensualità indotta dalla città viziosa, languida nel corpo nudo avvolto dal prezioso broccato: uno dei risultati più conturbanti dell’arte di Juana. Le sue donne sono sempre ammantate in tessuti preziosi e ricercati, dalle decorazioni storicizzanti, rese con tecnica pittorica virtuosistica, vicina alla maestria tecnica del Siglo de oro, mutuata dal maestro Roybet. Traspare qui chiaramente ancora il riferimento a Velazquez, e alla grande pittura spagnola del Seicento, così importante per l’italiana, e particolarmente vivo in Francia già dalla prima metà del secolo, quando anche Manet aveva eletti Velazquez e Goya, ammirati nella “Galerie Espagnole” di Luigi Filippo al Louvre (1838-1848), ricca di ben quattrocento dipinti, suoi numi tutelari.
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Dopo il fiasco dell’Olympia, nel 1865 l’artista si era rifugiato addirittura a Madrid, al Prado, avvolto nei cromatismi di Velazquez (e di Tiziano) ritornati potenti nella sua opera, ma incompresi dalla critica. Anche Juana Romani compie nel 1895 un viaggio a Madrid, per ammirare dal vivo quei capolavori. Per l’occasione la stampa iberica arriva, forse confusa dal nome di battesimo, forse dallo stile neoseicentista, a considerarla “una famosa pittrice spagnola” (La Iberia, 1895), dando avvio alla sua fama nel mondo ispanofono, mentre attraverso la collezione Roverano, del ricco imprenditore argentino collezionista a Parigi, giungeranno in Sudamerica la “Giovane donna orientale”, 1895, Buenos Aires, e “L’Infanta”, 1895-1900, Paranà. Tornata a Parigi, il Salon del 1895 segna un ritorno dell’artista di Velletri al Rinascimento italiano in un tema botticelliano ( “Primavera”, acquisita dallo stato francese per intercessione di Silvestre, Lagrange 2017), svolto in un trattamento della figura alla Velazquez, potente nell’espressione del sorriso in primo piano, che fa preoccupare il critico Mayet (“questa testa di idiota scappata da una Salpêtrière qualunque mi lascia assolutamente indifferente”), ma che precorre in realtà un taglio compositivo dell’immagine e moduli espressivi già rivolti alla cartellonistica e alla pubblicità: nel 1902 la Romani sarà chiamata dai grandi magazzini Samaritaine, il Paradiso delle Signore descritto da Zola, per disegnare le grandi affiches pubblicitarie di réclames. L’esigente critica francese, pur tra qualche voce dissonante (Jean de l’Hers), che disapprova l’ossessione monocorde per il tema del ritratto femminile, e il pericolo per la sua pittura di sconfinare ne “l’Art pour l’art”, si manterrà costante nell’apprezzamento anche dopo il 1895, valutando le particolarità dello stile e il coraggio delle sortite di mademoiselle Romani nel difficile campo della pittura, saldamente tenuto in mano dagli uomini. Spicca tra tutti il celebre Armand Silvestre, che nel 1896 tesse un apertissimo elogio dell’artista italiana rivolta al grande passato del Rinascimento (“Correggio, Veronese, Tiziano rivivono in lei”): la Romani, al culmine del successo, esteso a Bordeaux, Mulhouse, Lione, Montecarlo, Lille, Monaco, Nantes, Besançon, Anversa, Londra, Vienna, affronta nel Salon del ‘98 con la sua “Angelica” d’Orlando, calando il fascino poetico della creatura in modi tizianeschi; si raffigura al Salon del 1902 come “Tizianella” , impersonando, al femminile, il Tizianello cugino di Tiziano; arrivando addirittura ad incarnare -come riportato da Gabriele Romani- i panni en travesti di Mino da Fiesole, scultore rinascimentale ammiratissimo, in una sorta di operazione alla George Sand, ma rovesciata: la sua Mina da Fiesole, presentata al Salon del 1899, celebra in quel ritratto di ragazza, “un’adolescente sorridente dagli occhi luminosi e dai capelli rossi”, l’immedesimazione della sua figura e del suo talento di artista donna nello scultore toscano del Quattrocento, percepito vicino alla sua poetica e sensibilità.
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La svolta del nuovo secolo segna per Roybet e la sua allieva Juana Romani il coinvolgimento nello scandalo finanziario Humbert: nel 1903, il celebre critico Vauxcelles li va a trovare nello studio, e registra una pittrice estremamente agitata, che ribadisce la sua voglia di vivere e dipingere, e il disprezzo di tutto ciò che non è arte. Sulla prima pagina del Gil Blas campeggia la dichiarazione di castità professata come un voto dall’artista, che desidera dedicarsi quale vestale soltanto all’arte, rinunciando alla maternità. Un’intervista al Pearson’s Magazine, dell’anno prima, rivela in Juana una tiepida seguace della causa femminista, già da allora in primo piano in Inghilterra (non parteciperà mai all’Union des Femmes Peintres et Sculpteurs), e la convinzione, intima per lei, che nei Salons si misura con gli uomini, e che vede riconosciuta dalla critica l’energia “maschile” della sua tecnica artistica, di un’assoluta parità uomo-donna: “prese singolarmente le donne sono spesso intellettualmente superiori agli uomini…ma esse debbano rimanere tali, e coltivare le proprie facoltà…”. Invitata ad assumere la cittadinanza francese, per essere quindi annoverata tra le artiste transalpine, come consigliatole da Roybet, e poter dunque trarre da questa condizione maggiori vantaggi (concessione di onorificenze, quale la prestigiosa Legion d’Honneur) Juana Romani la rifiuta, trovando però, paradossalmente, nella sua Patria, in cui per lei sono fuse nazione e città d’origine, l’ostilità della critica. Al pari di Boldini, De Nittis, Mancini, “les italienes parisianisés” secondo Vauxcelles, la Romani è considerata “contaminata” dall’arte francese: la sua “Angelica” , esposta alla Biennale di Venezia del 1901, è descritta come “una tisica vestita da prete russo”. Inoltre viene rilevato il suo essere fuori contesto dai temi trattati nel padiglione del Lazio, in cui quell’anno Coleman, Sartorio, Cabianca, Mancini, Petiti espongono tutti la grande pittura di paesaggio. Non giova di certo a Juana l’insuccesso di “Sarabande” di Roybet, esposto nel padiglione francese, cui è accomunata per il suo alunnato. Cominciano nel 1903 i primi segni dell’instabilità mentale, alimentata dal mancato riconoscimento della sua arte da parte della Patria, in cui tanto aveva sperato.
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I progetti di collaborazione con Velletri, amata città natale che nel 1901 le ha dedicato la civica scuola di Arti e Mestieri, accogliendo trionfalmente la sua visita il 21 ottobre di quell’anno, decadono velocemente, sino a non essere più menzionati nei carteggi esistenti. Il Salon del 1904 è l’ultimo a cui la Romani partecipa. Dal 1905 la situazione precipita: muore Henner, l’artista che ha favorito il suo esordio, a cui Juana è molto legata, e nel 1906, dopo una violenta crisi nervosa, Roybet è costretto a rinchiudere la sua allieva e compagna d’arte in manicomio a Ivry-sur-Seine, per “psicosi allucinatoria cronica”, proprio mentre la Francia le tributa l’omaggio di inserirla tra gli artisti italiani di spicco esposti al Musée du Luxembourg. Dopo un effimero ristabilimento, registrato dalla stampa nel 1914, la vita di Juana Romani si chiude nell’oblio in manicomio, come quella della grande scultrice Camille Claudel, nel 1923. Juana Romani Il Corpo e la Patria di Gabriele Romani offre senza dubbio, nel suo impeto giovanile, a tratti con poco ordine, ma molta partecipazione, un interessante spaccato della vicenda storico critica dell’artista dall’Italia, e si aggiunge alle iniziative straniere volte a riconsiderare Juana Romani (Fig. 16): dal volume di Marion Lagrange Les peintres italiens à Paris dans la seconde moitié du XIXe siècle (1855-1909): l’affirmation d’une identité picturale (2010), alle due mostre di Courbevoie, piccola città satellite di Parigi, sede del Musée Roybet, curate da Emmanuelle Trief-Touchard: Femmes et artistes du XIXe siècle, à travers les collections du Musée Roybet-Fould (2014), con tre dipinti della Romani esposti a confronto con altre artiste dell’epoca; e La Main chaude, Histoire d’un jeu à travers les siècles (2016), rassegna di numerosi schizzi e disegni che raffigurano l’artista e sua madre Marianna. Dalla Francia all’Argentina: il Museo Nacional de Bellas Artes di Buenos Aires ha dedicato nel 2014 un’esposizione a La seducción fatal. Imaginarios eróticos del siglo XIX, a cura di Laura Malosetti Costa, in cui la “Giovane donna orientale” (1895-1900) di Juana, scelta anche da Gabriele Romani per la sua copertina, è diventata l’icona simbolo dell’esposizione; La Collección a través de la mujer, è il titolo della mostra del 2016 al Museo di Paraná, in cui è stata esposta “La infanta” (1895-1900). Il più recente segnale d’interesse in questo 2017, ricorrenza del 150esimo della nascita, è ancora francese: l’articolo di Marion Lagrange Juana Romani 1867-1923, élève de…maîtresse de…la parentèle sous la plume des critiques d’art, in Parent-elles, compagne de, fille de, sœur de…: les femmes artistes au risque de la parentèle, atti della conferenza in “Awarewomenartist.com”, pubblicato il 15 giugno 2017, restituisce un’immagine sempre più precisa della biografia dell’artista e del contesto in cui essa è maturata. E l’Italia? Sono lieto di annunciare che grazie alla collaborazione tra l’Accademia di Belle Arti di Roma, diretta da Tiziana D’Acchille e il Comune di Velletri, il lavoro affrontato da Gabriele Romani e da Alessandra De Angelis, sta per confluire, sotto la supervisione scientifica di chi scrive, nella prima mostra italiana dedicata all’artista, che entro l’anno vedrà esposte al Convento del Carmine, nuova sede veliterna dell’Accademia, una decina di dipinti, provenienti da musei e collezioni private straniere, insieme a stampe di opere della Romani, e a una ricchissima documentazione originale tra scritti e materiali appartenuti. La mostra costituirà un’occasione di verificare, attraverso il voluminoso catalogo, con saggi dei principali specialisti internazionali, la tenuta dell’opera di Juana e la modernità delle sue posizioni riguardo alla condizione femminile, vissuta da protagonista, quale donna artista, nel contesto parigino della società dell’epoca.