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La veliterna Caterina Rita in libreria con il volume "Raffaella Carrà. Cinquant’anni di Desiderio"

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Mentre viviamo dalle sdraio l’assedio delle radio e dei ronzii fastidiosi che tra i palazzi diffondono voci di nuove celebrità destinate al macello, è inevitabile per noi meditare su quale sia il valore reale dei nuovi miti.


di Gabriele Romani

Quesito, di certo non semplice, ma stimolato non solo dall’ormai sopraggiunta calura estiva, ma anche, lo confesso, da una recente pubblicazione di Caterina Rita: Raffaella Carrà. Cinquant’anni di Desiderio edito dalla Bulzoni. Se oggi si avverte una sorta di “caduta libera” degli idoli, è naturale volgersi a quelle figure che resistono alla forza divorante delle novità: chi meglio della Carrà può incarnare questa ostinazione. Mi tornano alla mente le parole del greco Libanio di Antiochia, rievocate da Heine, quando esortò “i devoti barbari di risparmiare quei preziosi capolavori, con i quali lo spirito plastico degli Elleni aveva adornato il mondo” (H. Heine, Gli dèi in esilio, Adelphi, 2000, p. 7). Certo è che la plasticità di quell’Occidente lontano ora si è tutta condensata sullo schermo della televisione e del cinema e i nuovi eroi combattono oramai in digitale. Caterina Rita ha sezionato il corpo dell’immagine Carrà, ha ricercato, come una speleologa del desiderio, quelle energie che hanno fatto di quella donna un simbolo, mettendo in luce, inevitabilmente, lo sguardo riflettente della massa che, dal boom economico, “gode” e si identifica con l’immagine televisiva. Interessante, su questo tema, sarebbe comprendere, quanto l’ondata d’affetto per lo scrittore Camilleri, recentemente scomparso, sia stata suscitata solamente da una viva affezione letteraria e quanto invece sia la reazione alla scomparsa di una figura la cui aura serena e, non raramente, punitiva conserva in extremis l’immagine di quel padre in “evaporazione” di cui molto si dibatte. L’autrice analizza prima di tutto il programma televisivo Sogni (2004), ripercorrendo le ragioni che hanno spostato la figura rassicurante della Carrà verso il mondo del perturbante, poi si passano in rassegna le numerose “incarnazioni” della star e la sua presa sulla massa; terminano le “note sul Camp”, uno studio su Tiziano Ferro e sui “pubblici” di Raffaella. Parallelamente all’analisi tecnica dei programmi e dell’immagine della diva, l’autrice riesce ad umanizzare il mito raccontando in prima persona la propria esperienza televisiva accanto a Raffaella Carrà: Caterina Rita ha lavorato infatti alla Rai come programmista regista e in “Pronto… Raffaella?” (1983-’85), “Buonasera, Raffaella!” (1985-’86), “Domenica in” (1986-’87) e “Sogni” (2004). Il saggio non solo attinge agli studi più recenti del linguaggio cinematografico e televisivo, ma vive di quella parola vissuta che, oltrepassando il semplice aneddoto, si integra con l’analisi e arricchisce lo studio sul costume. Si vede, nella lettura, comporsi un’immagine caleidoscopica dove il punto di partenza e di arrivo è il corpo della diva, da quello sessuato ed autonomo degli anni ’60-’70 a quello fluido dell’universo LGBT, in un perenne gioco elastico con il “politicamente corretto”. Scrive Caterina: “Raffaella, creatura mercuriale, traghetta dall’oscurità alla luce della soggettivazione nuove identità emergenti che in lei si riconoscono. Scivola con lei mezzo secolo cui si aggrappano vecchi e nuovi “io” felici di elaborare la creazione e, perché no, la “ricreazione” dell’identità” (p.97). L’autrice poi lo confessa: Raffaella ha esercitato una tale fascinazione su di lei che sarebbe stato inevitabile porsi la domanda “ma perché?”; forse perché, le risponderebbe Boncompagni, semplicemente “è strabica”.

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