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Velletri Archeologica: "Una gita a Preneste" - a cura del Gruppo Archeologico Veliterno

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PRIMA PARTE - Da giovanottino, un bel mattino d’estate, di buon’ora, Caio Ottavio partì da Velletri a cavallo con un gruppetto di coetanei per andare a Preneste.

di Ciro Gravier

Si diedero appuntamento sull’Appia alla stazione di posta “ad Sponsas”, dove c’era un rustico santuario di Apollo e Diana, che la gente chiamava “Sole e Luna”: le ragazze vi si recavano in pellegrinaggio la sera prima delle nozze.
I tre di Velletri aspettarono i due amici che venivano da Ulubre e l’altro che veniva da Lanuvio, i quali non si fecero attendere, e tutti e sei si avviarono per la Mactorina che, nella sua parte veliterna, era stata da non molto restaurata da un liberto degli Ottavi, un certo Onesimo, e sul posto c’era anche una bella epigrafe, che i “Velletrani” si erano divertiti a leggere nell’attesa dei compagni. Il sole, che si alzava allegro alle loro spalle, anticipava le loro ombre sul selciato, mentre dai campi si levava l’odore pungente e gradevole del fieno falciato. Cominciò la salita verso l’Algido e presero a vedersi i primi greggi di ovini negli stazzi dei terrazzamenti. Al fontanile sul crinale dell’Algido li aspettava l’ultimo della comitiva, che veniva da Ariano. Aveva portato con sé, ed era ancora tutta calda, una pagnotta di quel buonissimo pane che facevano al villaggio. Bastò quel profumo delizioso per far venire il languorino a tutti. Per pochi spiccioli, pagati alla romana, ebbero da un pastore una magnifica caciotta di capra. Quello di Lanuvio a questo punto tirò fuori dalla sua saccoccia una saporitissima torta di pere, le pere bugiarde tipiche di là, che aveva sottratto alla sorella la quale voleva mostrare alle sue amiche di quali abilità culinarie fosse dotata. Si uscì quindi a parlare di donne. Il ladro di torte sghignazzava a proposito della presunta verginità delle illibate fanciulle che portavano ogni anno la loro focaccia al serpente di Giunone Sospita, e i due di Ulubre magnificavano le forme di certe contadinotte loro vicine. I Velletrani raccontarono, fra risate sgangherate, l’episodio dello spavento che misero ad una ragazzotta arianese quando le si presentarono davanti camuffati da priapi con enormi peni tintinnanti. L’Arianese ridacchiò amaro, perchè finalmente veniva a sapere chi aveva terrorizzato sua sorella, ma era costretto a stare al gioco. Comunque era chiaro che tutto quello che andavano dicendo, magnificando, raccontando e vantandosi, erano più fantasie erotiche di adolescenti che vere e proprie esperienze vissute. Sospirarono, e si rimisero a cavallo per scendere dritti fino a Preneste. A Preneste era giorno di mercato, che cominciava a ridosso delle mura poderose, che si favoleggiava fossero state costruite dai Ciclopi, e continuava entro le mura fino al Foro, al centro della città. Fuori della città c’era il mercato degli animali: buoi, cavalli, asini, maiali, pecore e galline. Nella stalla di un maniscalco, i nostri giovani lasciarono i loro cavalli e si avventurarono per il mercato. Passarono sotto la Porta del Sole. Lungo le mura, ma questa volta dall’interno, c’erano i venditori di granaglie e quelli di olio. In un piccolo spazio, alcune caprette fornivano vasetti di latte caldo e schiumoso munto direttamente dalle mammelle rigonfie per i bambini che ne andavano ghiotti. Da lì, lungo la strada verso il centro, la Via Romana, era tutto un susseguirsi di bottegucce e di banchi dove era possibile acquistare il pane appena sfornato, i biscotti, la frutta di stagione, gli ortaggi freschi dei campi, la carne, i salumi, i formaggi, il miele, il pesce essiccato e, preziosissimo, il sale. Ogni tanto si apriva un thermopolium con mescite di vino mescolato a neve che veniva dai monti dell’Abruzzo ed era conservato negli scantinati sotto la paglia, e ciotole di garum da portare a casa come condimento, e ceci cotti. Alcuni di questi thermopolia disponevano di strette stanzette al piano superiore dove era possibile trascorrere il tempo di due clessidre con meretrici locali o dei dintorni. I prezzi erano indicati all’interno della bottega su un’ardesia: si andava da un quarto di asse fino a due assi. E infine nel foro, sotto baracche improvvisate, c’erano i venditori di utensili di rame per la cucina, di vasi e ciotole di terracotta, di canestri e panieri di vimini bellamente intrecciati, di pettini, spazzole e specchi, di ciondoli e cianfrusaglie, di giocattoli e di bambole di segatura, di abiti usati, di lane, di scarpe e di zoccoli di legno con la tomaia di cuoio tenuta con chiodi dalla larga borchia piatta. Ad aumentare la confusione c’erano anche giocolieri e saltimbanchi, fattucchiere, mangiatori di fuoco, prestigiatori, venditori di pomate, e gli immancabili imbroglioni dei dadi truccati. Era tutta una assordante cacofonia di voci dei mercanti che vantavano le loro merci, di grida, di urla, di litigi di comari, di strilli di bambini e ragli di somari. I nostri giovani penarono non poco a farsi strada tra spintoni dati e ricevuti, gomitate nelle costole e piedi calpestati, e finalmente si trovarono, assordati, sfiniti e sfiatati, nella solitudine e nel silenzio oltre il foro, sulla strada verso il santuario quel giorno assolutamente deserto. Visto dal basso, il Tempio grandioso si mostrava in tutta le sue maestosità e potenza riflettendo dai marmi bianchissimi la luce del sole che dominava nel cielo purissimo. Risalendo con lo sguardo, si ammirava dapprima in basso un magnifico porticato adorno di statue, da dove due scale laterali conducevano ad un primo piano. Da lì, un’altra gradinata portava ad un secondo piano e da lì ancora, altre due scale laterali conducevano ad un terzo piano dal quale si saliva per trovarsi finalmente in mezzo a sontuosi portici che immettevano, mediante una gradinata semicircolare, nell’area su cui si ergeva uno splendido tempio rotondo.

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