“Un vangelo dal volto umano” di Gaetano Zaralli
XVI Domenica T.O.
Testo
Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: «Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». Ma Gesù le rispose: «Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta»(Lc 10,38–42).
Commento
E una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa.
Sappiamo già troppe cose di Marta e Maria, sappiamo perfino che avevano in comune un fratello, il famoso Lazzaro che in altre circostanze dovrà morire per essere poi risuscitato.
Sappiamo troppe cose delle due sorelle, eppure una notizia era sfuggita alla nostra attenzione. Si dica quel che si vuole di Marta, ma nessuno potrà mai mettere in dubbio la sua perspicacia, il suo senso pratico, il suo buon cuore. . . A lei va il merito di aver rotto il ghiaccio nella relazione amicale con Gesù, anche se poi sarà l’affetto particolare per Maria a condurre il Maestro più di una volta sulla strada di Betania.
Maria, [. . . ] sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola.
L’intimità tra Maria e Gesù va oltre le pagine del vangelo, e la stuoia consumata dal tempo su cui giace la giovane donna, assorta nell’anima e protesa col corpo verso l’oggetto della contemplazione, sarà in futuro il tavolaccio su cui le sante vivranno le estasi d’amore, sarà il plaid che si stenderà sul prato ad accogliere il fremito intenso degli innamorati. La stuoia, il tavolaccio, il plaid sono i simboli ormai stigmatizzati delle avventure amorose, sia che esse abbiano a che fare con la contemplazione paradisiaca, sia che favoriscano semplicemente il dialogo dove si parla d’amore.
Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti.
Marta avrebbe ragione di lamentarsi, se per Maria lo stare ai piedi di Gesù fosse solo il pretesto per starsene lontana dalle faccende di casa. Mi fanno sempre strana impressione quei parroci che con le facce da mistici si lasciano coccolare dalle anime belle, passando il tempo a chiacchierare con loro di cose futili, mentre il povero coadiutore si ammazza di fatica tra il campetto di gioco e le aule di catechismo. Tante suore faticano e si sporcano le mani, e talvolta si rovinano perfino l’anima in lavori difficili e degradanti. Le monache, invece, quelle di clausura, cantano inni al Signore, adorano il Santissimo, impastano e cuociono le sottili sfoglie di pane azzimo, appiccicano su tavolette, rese antiche dal pennello, icone di carta stampata e poi sorridono. . . sorridono, mostrando ai visitatori privilegiati la loro diafana corporeità. A chi fa notare l’inutilità del loro vivere, rispondono: «Noi dell’albero siamo le radici che, nascoste sottoterra, assicurano all’intera pianta la linfa vitale, perché le chiome si agitino agili e sinuose al soffio del vento!» . . .
Marta, Marta [. . . ] una sola è la cosa di cui c’è bisogno.
E se tutti fossimo come Maria? O è possibile essere nello stesso tempo Marta e Maria? L’ideale è riuscire a mettere insieme azione e meditazione, operosità muscolare e riflessione intima, faccende di cucina tra le pile e estasi d’amore sul divano comodo del salotto. Per non cadere in errore, ho diviso la mia giornata in due tempi. Al mattino, fino all’ora di pranzo, mi dedico ai sogni; al pomeriggio, fino ad ora tarda, lavoro.