Un giorno di quasi due secoli fa la lenta costruzione della ferrovia che doveva collegare Roma a Napoli e la corsa dei binari, paralleli fino a quando non si incontrano all’infinito lanciando un’estrema sfida allo sguardo, si interruppe.
Gli ultimi chilometri che separavano la tratta ultimata dalla stazione di Velletri erano rintracciabili solo in linea d’aria, si disfacevano nel vuoto immenso di un fosso.
Le distanze allora, in quell’Ottocento pieno dei rivolgimenti che hanno ancora un peso odierno, si andavano abbattendo, la velocità prendeva forma nel suono delle ruote delle locomotive sulle rotaie e non traeva più il suo ritmo dai cadenzati passi dell’uomo. Le ripercussioni della rivoluzione industriale, vive e feconde in Europa, nell’Italia ancora non unita stentavano a rendersi visibili. Le disiecta membra del paese rendevano difficile i rapporti tra gli stati e le infrastrutture, indispensabili anche solo per una minima crescita economica, mancavano quasi del tutto.
L’unica speranza di ammodernamento era riposta nella volontà di chi questi stati o regni li guidava, i fattori di catalisi per l’accelerazione dei processi di adeguamento potevano essere da un lato la necessità della propaganda e dall’altro il miglioramento effettivo dei servizi. I primi tentativi di impianto del sistema ferroviario, con la realizzazione nel 1839 della ferrovia Napoli-Portici e in seguito con lo sviluppo della linee fino a Ceprano nel vicino Regno delle due Sicilie, spinsero il neoletto papa Pio IX (1846-1878) a modificare la linea politica dello Stato Pontificio nei confronti delle ferrovie e a emanare una notificazione per la costruzione di quattro linee ferroviarie nel Lazio. All’ascesa al soglio pontificio papa Mastai impresse un radicale cambiamento di rotta, ponendo come fulcri del suo programma l’amnistia per i carcerati e un piano di costruzione delle ferrovie, tanto che la dedica “a Giovanni Maria Mastai Ferretti” divenne secondo il gusto ludico dell’epoca l’anagramma “Grati nomi, amnistia e ferrata via”. Il lavoro di costruzione fu lungo, ma l’opera promossa da Pio IX fu interpretata come uno dei momenti più importanti per lo sviluppo di Roma a livello urbanistico e per quello delle sue propaggini extra urbane, inferiore forse solamente al periodo del pontificato di Sisto V nel lontano XVI secolo. La linea che da Roma, passando per Ciampino, doveva attraversare Velletri per ricongiungersi a Ceprano con le tratte napoletane nel 1870, al momento in cui anche Roma diventò parte dello Stato italiano e lo Stato pontificio vide ridurre i suoi domini territoriali, era prossima al completamento. Mancavano unicamente quelle migliaia di metri fluttuanti nel vuoto, una vertigine superabile solo con la costruzione di un ponte che prese il nome del papa, il ponte Pio, e oggi ha assunto anche il nome di Sant’Anatolia, lo stesso del fosso che rappresentava un salto di Leucàde, una sfida della tecnologia alla sorte.
Architettonicamente il ponte tentava di unire il gusto classico al materiale e al metodo di costruzione moderno: il letargico ferro si piegava ad assumere le forme calde di un mondo perduto, rimasto vivo nella tradizione dell’arte. Durante la Seconda guerra mondiale però i piloni subirono danni ingenti e attualmente ne rimangono due, arrugginiti e coperti dai frondosi arbusti. L’esigenza di colmare lo spazio, di ricongiungere quei lembi di terra separati, rese necessaria l’edificazione del ponte sul quale correntemente passano i treni. Questo ponte, erede di quello ottocentesco, rappresenta un segnale per il passeggero desideroso di riporre di nuovo il piede sul suolo e di tornare a casa: si sottopone allo sguardo l’intera città di Velletri e spicca tra i tanti il palazzo del Comune. Da ora in poi, percorrendo di nuovo questa tratta avremo nel cuore il sentore di quel lontano Ottocento, pieno di sfide all’ingegno e del suono di locomotive che partono sbuffando per raggiungere destinazioni mai immaginate prima.
L’unica speranza di ammodernamento era riposta nella volontà di chi questi stati o regni li guidava, i fattori di catalisi per l’accelerazione dei processi di adeguamento potevano essere da un lato la necessità della propaganda e dall’altro il miglioramento effettivo dei servizi. I primi tentativi di impianto del sistema ferroviario, con la realizzazione nel 1839 della ferrovia Napoli-Portici e in seguito con lo sviluppo della linee fino a Ceprano nel vicino Regno delle due Sicilie, spinsero il neoletto papa Pio IX (1846-1878) a modificare la linea politica dello Stato Pontificio nei confronti delle ferrovie e a emanare una notificazione per la costruzione di quattro linee ferroviarie nel Lazio. All’ascesa al soglio pontificio papa Mastai impresse un radicale cambiamento di rotta, ponendo come fulcri del suo programma l’amnistia per i carcerati e un piano di costruzione delle ferrovie, tanto che la dedica “a Giovanni Maria Mastai Ferretti” divenne secondo il gusto ludico dell’epoca l’anagramma “Grati nomi, amnistia e ferrata via”. Il lavoro di costruzione fu lungo, ma l’opera promossa da Pio IX fu interpretata come uno dei momenti più importanti per lo sviluppo di Roma a livello urbanistico e per quello delle sue propaggini extra urbane, inferiore forse solamente al periodo del pontificato di Sisto V nel lontano XVI secolo. La linea che da Roma, passando per Ciampino, doveva attraversare Velletri per ricongiungersi a Ceprano con le tratte napoletane nel 1870, al momento in cui anche Roma diventò parte dello Stato italiano e lo Stato pontificio vide ridurre i suoi domini territoriali, era prossima al completamento. Mancavano unicamente quelle migliaia di metri fluttuanti nel vuoto, una vertigine superabile solo con la costruzione di un ponte che prese il nome del papa, il ponte Pio, e oggi ha assunto anche il nome di Sant’Anatolia, lo stesso del fosso che rappresentava un salto di Leucàde, una sfida della tecnologia alla sorte.
Architettonicamente il ponte tentava di unire il gusto classico al materiale e al metodo di costruzione moderno: il letargico ferro si piegava ad assumere le forme calde di un mondo perduto, rimasto vivo nella tradizione dell’arte. Durante la Seconda guerra mondiale però i piloni subirono danni ingenti e attualmente ne rimangono due, arrugginiti e coperti dai frondosi arbusti. L’esigenza di colmare lo spazio, di ricongiungere quei lembi di terra separati, rese necessaria l’edificazione del ponte sul quale correntemente passano i treni. Questo ponte, erede di quello ottocentesco, rappresenta un segnale per il passeggero desideroso di riporre di nuovo il piede sul suolo e di tornare a casa: si sottopone allo sguardo l’intera città di Velletri e spicca tra i tanti il palazzo del Comune. Da ora in poi, percorrendo di nuovo questa tratta avremo nel cuore il sentore di quel lontano Ottocento, pieno di sfide all’ingegno e del suono di locomotive che partono sbuffando per raggiungere destinazioni mai immaginate prima.
Valentina Leone