Ultimo appuntamento del ciclo di articoli archeologici su Augusto. Intervista a Giulia, figlia del princeps. Un viaggio tra storia, fantasia e letteratura.
di Ciro Oliviero Gravier
Gruppo Archeologico Veliterno
Signora Giulia, Le sono molto grato di avere accettato di concedermi questa intervista. L’anno scorso, pochi mesi prima che ci lasciasse, il suo Augusto genitore, quando gli chiesi di parlarmi di lei, mi rispose, tra il turbato e il brusco: “Per favore, passi alla domanda successiva” …
Non mi stupisco. Tanto per cominciare, il mio Augusto genitore, come dice lei, aspettava un figlio maschio e, quindi, non gradì molto che la moglie Scribonia, dalla quale aveva già preso le distanze mentre era incinta di me, gli scodellasse una femmina, e quella sera stessa, dopo che mi ebbe partorito, la rimandò a casa sua. Molto probabilmente l’avrebbe fatto, sia pure con qualche scrupolo, anche se fossi stata un maschio, ma lo fece senza nessuno scrupolo dato che ero femmina. Ad onor del vero, non posso dire che non mi abbia voluto bene. Mi ha voluto un bene immenso, tanto più che ero l’unica sua figlia legittima. Altri figli e altre figlie sicuramente ne ha avuti, ma tutti impresentabili in quanto nati da esperte matrone o da verginelle minorenni disponibili ad orgettine in cambio di cospicue ricompense (mio padre aveva tanti di quei soldi che si poteva comprare qualunque cosa). Si fece un’eccezione per Druso, il secondo figlio di Donna Livia, fatto passare come figlio di Claudio, ma noi in famiglia abbiamo sempre saputo che era figlio suo, figlio dell’Augusto genitore, che ha avuto anche la faccia tosta di farlo sposare con Antonia, cioè con la figlia di sua sorella! Dunque, sì, a modo suo mi ha voluto un bene immenso. Andava dicendo che aveva due figlie dilette di cui occuparsi: la Repubblica e Giulia. Ma in fondo la sua scelta è sempre stata a favore della prima: la Repubblica, lo Stato, la politica. E per questo, quando l’ho messo dinanzi alla scelta della sua vita: la Repubblica o me, ha preso ad odiarmi tanto, tantissimo. Da quello che so, è stato anche sul punto di farmi uccidere. Bontà sua, mi ha risparmiato. Ma probabilmente ha fatto peggio di uccidermi …
Ci dica della sua infanzia …
Sono nata nel 39, il giorno prima delle Kalende di novembre, la sera in cui i popoli barbari dell’estremo nord, i Celti soprattutto, festeggiano le larve dei loro morti con riti e gesti e grida che terrorizzano i bambini, e vanno correndo per le strade e si affacciano nelle case vampiri, streghe e mostri orribili. Da bambina una volta con gli occhi sbarrati dalla paura l’ho visto fare nella famiglia di un nostro schiavo, lungo e bianco come uno scheletro, che si chiamava Samain. Quando lo raccontai a papà, papà se ne disfece.
Insomma, sono cresciuta come un’orfanella, mentre mia madre era viva, ma non mi era permesso di vederla (tranne di tanto in tanto di nascosto, con la complicità di zia Ottavia, che era tornata da Atene) e mio padre sempre in giro per guerre o per politica, che poi erano la stessa cosa. C’erano lunghi periodi, a volte mesi e mesi, che non lo vedevo. Me lo immaginavo sempre a cavallo che guidava alla vittoria i soldati di Roma. Finalmente un giorno tornò dall’Egitto per celebrare il trionfo. La capitale del mondo festeggiava il padrone del mondo e la vittoria e la pace dopo quindici anni di guerra. Venivano lanciati denari con mio padre su una faccia e l’arco con la quadriga sull’altra. Dinanzi al carro, su un basso piedistallo a ruote, procedeva una statua di Cleopatra con un serpente d’oro che le pendeva da un braccio, e intorno alla statua c’erano tre bambini, due ragazze e un ragazzo, che erano i figli di Cleopatra ed Antonio. A me pareva di vedere il dio Apollo sul carro del Sole passare lentamente sulla via Sacra in un tripudio di trombe e tamburi, di acclamazioni e di luce. Quanta fierezza sentivo nel mio cuore di bambina. Avevo appena dieci anni.
Fu certamente una festa grandiosa …
E finita la festa, a spizzichi e a bocconi venni a sapere che, quando avevo due anni, ero stata promessa in sposa a Marco Antonio Antillo, figlio di Marco Antonio, che allora aveva dieci anni. Poi ero stata promessa sposa a un certo Cotisone, re dei Geti, quasi alla fine del mondo. Poi ad un signore che si chiamava Proculeio, un cavaliere allampanato tutto d’un pezzo e con la faccia di cartapecora. Insomma, ero una semplice pedina su una scacchiera della politica interna e internazionale di mio padre. I miei interessi, i miei desideri, le mie inclinazioni, meno che meno la mia volontà, non contavano nulla, puramente e semplicemente non esistevano. Finalmente, dopo tanti matrimoni annunciati e mai celebrati, fu deciso che avrei sposato mio cugino Marcello, il figlio di zia Ottavia, che papà, non avendo figli maschi, aveva intenzione di nominare suo erede. E così questa volta il matrimonio si tenne. Io avevo 14 anni e Marcello 17. Fu una cerimonia memorabile allietata da splendidi giuochi, ma anche questa volta papà non c’era: era in Spagna a combattere altre guerre. Le sue veci le fece Agrippa, lo stesso che sposai quattro anni dopo, una volta restata vedova di Marcello, che questo mio nuovo marito doveva sostituire nella successione.
La sua reazione?
Cominciai a ribellarmi. Insomma, il mio ventre doveva essere la serratura nella quale i successori di mio padre dovevano infilare la chiave, mi passi questa metafora, per penetrare nelle segrete stanze del potere!? Non ci stavo a questo gioco. Ero giovane e frizzante, e ribelle. Mi piaceva assai di più l’altro gioco, quello che un uomo e una donna o, se preferisce, un maschio e una femmina, fanno nelle stanze da letto. Agrippa, non c’è che dire, era un brav’uomo, ma anche lui stava più in giro per il mondo che a Roma. A me sarebbe tanto piaciuto restare a Roma, nella nostra magnifica villa a Trastevere. Invece no. Ogni volta dovevo fare i bagagli per stargli appresso: la Gallia, l’Italia, l’Asia Minore, la Giudea, la Grecia, la Campania … Quando tornava a casa, mi metteva incinta, e ripartiva, e io di nuovo appresso. In nove anni di matrimonio, gli ho fatto cinque figli, sparsi per i quattro angoli del mondo: Gaio Cesare, il primo, e Giulia, la seconda, nacquero in Gallia; il terzo, Lucio, in Italia; Agrippina la partorii ad Atene. L’ultimo, Agrippa, nacque postumo.
Comunque sia, mio marito aveva 25 anni più di me, sicchè io avevo l’impressione di vivere nella generazione precedente alla mia, o addirittura di andare a letto con mio padre. Allora, in sua assenza, cominciai ad invitare giovani maschi che mi piacessero e mi soddisfacessero completamente, nel corpo e nella mente. S’intende che questo va-e-vieni di ragazzi non andava a genio a mio padre che però doveva stare al suo posto perché per legge non dipendevo da lui, ma da mio marito. Da parte mia, ero attentissima a non farmi mettere incinta da costoro. Mi dicevo tra me e me che ero come una nave che imbarcava passeggeri solo quando il carico era pieno. Mio padre, poi, ipocritamente, si era messo a fare il moralista con le sue leggi all’antica, mentre poi se ne andava a far visita, diciamo così, alle signore dell’alta società allo scopo – si giustificava lui – di carpire nell’intimità quello che macchinavano i loro mariti. Bella scusa! Allora anche io potevo dire lo stesso, solo che invece di consultare le madri, consultavo i figli. Compassate giumente contro puledri sgambettanti. Praticamente io e mio padre eravamo l’uno la copia speculare dell’altra. Facevamo entrambi il gioco di Penelope: lui tesseva la tela e io la disfacevo.
Si è risposata …
Ma non c’era verso. Restata vedova per la seconda volta, quando non avevo ancora partorito l’ultimo figlio di Agrippa, mi dovetti piegare a un terzo matrimonio. Questa volta non ho dubbi che la tela era stata ordita da Donna Livia, che finalmente, dopo tanti birilli caduti uno dopo l’altro, potè sistemare in linea di successione il suo primo figlio Tiberio. Il poveraccio era sposato con Vipsania Agrippina, una dolcissima ragazza di cui era sinceramente innamorato e con cui andava pienamente d’accordo. Ebbene no, dovette divorziare - la povera Vipsania, che era incinta, abortì per il dolore - e sposare me, che ero la figlia del marito di sua madre. Sua madre e mio padre erano pappa e ciccia, e noi due, io e Tiberio, dovevamo essere culo e camicia. Era l’anno 11. A dire il vero, non è che io e lui non ci conoscessimo già: due o tre notti le avevamo passate insieme, senza nessun impegno e con reciproca soddisfazione. Ma ora diventava mio marito. Ben istruito da sua madre e da mio padre, e conoscendomi, Tiberio non mi lasciò sola a Roma, ma mi trascinò appresso a lui come una calda pantofola. La pantofola restò incinta e partorì un bel pantofolino, ad Aquileia. Il pantofolino morì prima di diventare una scarpa, o almeno una caligula. I rapporti tra me e Tiberio si allentarono e si deteriorarono fino a scomparire del tutto: lui non sopportava le mie frequentazioni, io ero annoiata a morte dai suoi predicozzi insulsi. Ma poi chi era lui rispetto a me? Io ero sempre la figlia unica e legittima di Augusto, lui non sarebbe stato mai nessuno se sua madre non avesse sposato, in terze nozze, mio padre, rubandolo a mia madre. Mio padre, del resto, non si era veramente impegnato con Livia a nominare suo successore Tiberio. Forse era una cosa detta e non detta, ma questo mi fu chiaro solo in seguito. Il fatto vero è che invece papà aveva formalmente adottato i miei due bambini maschi, Gaio e Lucio, appena dopo la morte di Agrippa, l’anno prima che mi sposassi con Tiberio. All’epoca Gaio aveva 8 anni e Lucio ne aveva 5.
Tiberio pare non gradisse …
Tiberio pazientò cinque anni. Poi, poiché i ragazzi non solo non morivano, ma – grazie al nonno – facevano progressi nella carriera, visto che il matrimonio con me non gli fruttava quello che lui e la sua signora madre speravano - anzi: pretendevano come dovuto -, si mise in sciopero, divorziò da me, e si ritirò in aspettativa a Rodi, lasciandomi sola a Roma. Per far questo, trovò il pretesto del mio – come disse – “licenzioso comportamento”. Io mi sentii assolutamente libera ed autorizzata a comportarmi more uxorio con chi e quanti mi piacessero. Fra i tanti, mi legai particolarmente a Iullo, uno dei figli di Marco Antonio, e alunno del cosiddetto “asilo” di zia Ottavia. Già da ragazzini provavamo una forte simpatia l’uno per l’altra, ci lanciavamo occhiatine di complicità e, appena fummo più grandicelli, ogni tanto ci appartavamo per i nostri giochetti maliziosi. Dopo Azio, quando si giocava alla battaglia navale, lui faceva la parte di Marco Antonio suo padre, e io quella di Cleopatra, l’amante. Ora che eravamo grandi entrambi, e lui era un giovane bellissimo che mi eccitava solo a guardarlo, quei giochetti di adolescenti diventarono un rapporto più serio, molto più serio. Iullo si era messo in testa di vendicare suo padre e organizzò un complotto contro il mio. Aveva scritto un poema epico, la “Diomedea”, in cui Diomede (cioè suo padre Marco Antonio) si contrapponeva ad Enea (cioè Augusto). E finchè parlava di poesia o di letteratura in generale, lo seguivo. Non lo seguivo più quando attaccava certi discorsi di economia: accusava mio padre di essere un protezionista mentre bisognava favorire il consumismo togliendo i dazi dai prodotti pregiati che venivano dall’Oriente. Una sera, coricati fianco a fianco, sudati e sfiniti dopo un’intensa passione d’amore, mi sussurrò all’orecchio: “Cleopatruccia – così mi chiamava in quei momenti -, le rifacciamo le nostre Idi di marzo?”. “Bruto da strapazzo”, gli risposi prendendola a ridere. Invece lui faceva sul serio. Insieme ad altri suoi compagni, tutti occasionali amici miei di letto, un bel giorno si intrufolò a palazzo e tentò goffamente di pugnalare Augusto che si stava preparando ad un bagno curativo. Non attese la condanna, e si suicidò. L’indomani – era una livida mattina d’autunno – vennero gli sgherri di mio padre ad arrestarmi. Non mi volle neanche vedere. Mi fece consegnare un documento in cui era scritto che il mio matrimonio con Tiberio era considerato come nullo e non avvenuto. Mi fece caricare il giorno stesso sotto buona scorta, con solo quello che avevo addosso, su una nave militare e condurre a Ventotene.
È un’isola bellissima.
Certamente. E in quell’isola dalla bellezza selvaggia, dimenticata dagli Dei ma non dagli uomini, sono restata prigioniera per cinque lunghissimi anni. Io e mia madre Scribonia. Il buon Augusto aveva pensato bene di approfittare della circostanza per sbarazzarsi definitivamente anche di lei, ingiungendole di farmi compagnia. In realtà fu solo allora che madre e figlia poterono conoscersi. Le rispettive vite erano però state tanto separate che non avevamo quasi nulla in comune, eccetto - beninteso - il legame del sangue. Trascorrevamo intere giornate a contemplare in silenzio il mare fino a che il sole non vi si precipitava dentro in uno sfolgorio di rossi sempre più cupi. Sempre in silenzio, facevamo ritorno nella misera casetta dove alloggiavamo per cenare con una fetta di cacio, poche ulive amarognole e una crosta di pane. Eravamo due vestali: senza uomini, senza vino, senza bigiotteria, senza notizie. Ventotene però non era troppo distante da Roma, ed io avevo troppi cari amici che mi rimpiangevano e volevano farmi sapere che intendevano fare qualcosa per me, a dispetto dell’assedio navale che circondava l’isola giorno e notte. Una notizia tuttavia mi arrivò, lugubre e terribile e senza dettagli: era morto di malattia a Marsiglia mio figlio Lucio. Allora scrissi una lettera dolce e furiosa insieme a mio padre, nella quale gli indicavo, fra mezze frasi e sottintesi, il mio sospetto che Lucio non se lo fosse portato via la malattia, ma … Per tutta risposta, fui presa, messa su un’altra nave e rinchiusa a Reggio, in fondo alla Calabria, in questa torre sinistra. E qui sto da allora, sempre più sola. Da ultimo, ho saputo dalle guardie che Tiberio mi ha confinato in una sola stanza, come una carcerata. Ne ho dedotto che mio padre deve essere morto da poco, e deve essere morto – chissà quando e chissà dove e chissà come – anche l’altro mio figlio, Gaio, se ora a dare ordini c’è quel vigliacco di Tiberio. Ne ho avuto conferma da una mezza parola di una guardia: pare che vogliono divinizzare l’Augusto, già figlio del divino Cesare. Mi pare mill’anni di incontrarlo nell’altro mondo, e vedere se ha il coraggio, dio o uomo che sia, di guardarmi negli occhi, me, la sua figlia diletta e reietta.
Giulia è morta d’inedia due settimane dopo questa intervista.
Aveva 52 anni, di cui gli ultimi tredici trascorsi in prigionia.