La sera del 22 ottobre del 42 a.C., alla vigilia della seconda – che sarebbe stata asperrima - battaglia di Filippi, in Macedonia, il cui esito avrebbe deciso della vittoria assoluta e definitiva fra i triumviri e i cesaricidi, Augusto, febbricitante, fece il voto di dedicare a Marte Vendicatore (Mars Ultor) un tempio in Roma qualora la vittoria avrebbe arriso ai vendicatori di Cesare.
di Ciro Oliviero Gravier
Gruppo Archeologico Veliterno
PRIMA PARTE
PRIMA PARTE
Così fu infatti, ma Augusto non poté assolvere il suo voto che quaranta anni più tardi. Andò comprando ex manubiis (col bottino di guerra) terreni privati tra la Suburra e il Foro di Cesare, e quando finalmente la superficie acquistata ma, soprattutto, le vicende storiche, glielo permisero, intraprese l’innalzamento del tempio. Nel frattempo, però, le cose erano molto cambiate da quelle che erano quaranta anni prima: Ottaviano, sconfitto lo stesso Marcantonio e sedata ogni residua ostilità, aveva imposto la Pax romana nel vastissimo Impero, si era reso indispensabile ed essenziale: il Senato gli aveva di fatto assegnato i pieni poteri, lo aveva proclamato Augusto ed ora, l’anno 2 a.C., anche “Padre della Patria”. Il tempio a Marte Vendicatore doveva assumere quindi una nuova fisionomia, omogenea ai tempi, ed iscriversi in un contesto architettonico più vasto e dalla simbologia più penetrante. Il Tempio iniziale sarebbe quindi stato inserito in un Foro che, a dispetto del relativamente non grande spazio disponibile (125 m. x 118), sarebbe stato magnifico e sorprendentemente evocatore. Si cominciò con l’alzare un muro altissimo (e fu il più alto di Roma: 33 metri) in opus quadratum e materiale refrattario che separasse il futuro Foro dal quartiere malfamato della Suburra e fungesse anche da frangifiamme contro gli incendi devastatori che periodicamente vi si appiccavano. Vi furono comunque lasciati due ingressi ai due lati del tempio la cui abside fu addossata al muro, mentre tutta la fabbrica avanzava su un podio alto 3 m. e mezzo per 50 metri nella piazza Con la sua forma periptera, ottastila di colonne corinzie in marmo bianco lunense alte 15 metri (tre delle quali esistono tuttora), sine postico, l’alta scalinata frontale (17 gradini) interrotta al centro dall’altare e terminante in due fontane, la magnifica cella, il classico frontone, le Nikai alate in bronzo dorato (un piede di esse è conservato al Museo dei Fori imperiali) sugli spigoli costituì un modello per molti secoli a venire. Lo spettatore che dalla piazza alzava lo sguardo dapprima per ammirare la quadriga trionfale guidata da Augusto, e poi verso il frontone riconosceva al centro la statua di Marte con la lancia nella destra ad indicare la guerra, la spada rinfoderata nella sinistra ad indicare la pace e il piede sul globo ad indicare il dominio sul mondo; alla sua destra c’era Venere, e accanto a Venere, Romolo e poi la personificazione del Palatino; alla sinistra di Marte comparivano la Fortuna, la dea Roma e la personificazione del Tevere. Se poi dalla piazza, salita la gradinata, penetrava nel tempio e si inoltrava fino alla cella, per guardare con orgogliosa soddisfazione le aquile romane riconsegnate dai nemici, si imbatteva nelle tre statue di Marte, di Venere e del divus Iulius (Giulio Cesare divinizzato) e non poteva avere più dubbi: non si trattava più di tre dei, ma di una famiglia, ossia della gens Iulia, che era legittimata al governo dell’Urbe e dell’Orbe. La piazza, tutta pavimentata di marmo bianco, era fiancheggiata da due mirabili portici le cui colonne di ordine corinzio e le cui pareti erano di marmo giallo della Numidia (cave di Chemtou, in Tunisia). In alto scorreva un attico con figure di cariatidi esemplate su quelle celeberrime dell’Eretteo sull’Acropoli di Atene, che alternavano con clupei (scudi) da cui emergevano teste di divinità. In basso il pavimento era di marmi colorati. Dietro i portici si aprivano, a destra e a sinistra, due ampie esedre in funzione di tribunali di 40 metri di diametro per parte (quelle di destra furono demolite da Nerva che aveva bisogno di spazio per il suo Foro). In esse esercitavano in quelle di sinistra i praetores urbani (cause fra cittadini romani) e in quelle di destra i praetores peregrini (liti fra stranieri): uno degli scopi “laici” del Foro era anche quello di fornire ulteriore spazio ai giudici. Ma una specifica simbologia iconografica era veicolata attraverso i due gruppi scultorei e le statue che si richiamavano dalle due esedre superiori di sinistra e di destra. In quella di sinistra era rappresentato Enea col padre Anchise sulle spalle e il figlioletto Iulo per mano, mentre lungo tutta la parete c’erano le statue degli antenati della gens Julia (i re di Albalonga); in quella di destra era rappresentato Romolo trasportante in trionfo le spoglie opime del re nemico Acrone e lungo la parete le statue dei summi viri della storia di Roma. Da un lato, dunque, la pietas, dall’altro la virtus (entrambe incarnate dalle statue-tipo augustee “Labicana” e “Prima Porta”); da un lato la storia di una gens, dall’altro quella dell’urbs: le due storie a lungo parallele vengono a fondersi d’ora in poi nella persona dell’Augustus, sotto l’egida di Marte e di Venere (su cui acidamente ironizzerà Ovidio dal suo esilio a Tomi: “Stat Venus Ultori juncta, vir ante fores” – Sta Venere unita all’Ultore, col marito fuori la porta!). Il complesso era concluso da un altro vasto ambiente riccamente decorato in cui troneggiava la statua colossale del Genius Augusti, forse fattavi erigere e collocare dal Senato dopo la deificatio: in tal modo il tradizionale culto privato riservato al capostipite di una familia diventa culto pubblico del fondatore di una più vasta societas. Fu questo culto che generò l’opposizione insuperabile dei Giudeo-Cristiani e le relative persecuzioni dell’autorità.