Era ora il tempo di dare alla nuova provincia imperiale l’assetto giuridico, militare, amministrativo ed economico-finanziario che garantisse la tranquillità interna e l’afflusso costante dei rifornimenti verso l’Urbe.
di Ciro Gravier - Seconda parte
Gruppo Archeologico Veliterno
Ottaviano creò un’apposita categoria giuridica: quella della “provincia imperiale” direttamente governata dall’imperator, in netta distinzione con le vecchie province, d’ora in poi chiamate “senatorie” in quanto gestite dal Senato (la riforma sarà formalizzata nell’anno 27, ma – almeno per l’Egitto – entrava in vigore da subito).
Vi stabilì due legioni: la III Cyrenaica (già stata di Antonio e passata ad Ottaviano dopo Azio) e la XXII Deiotariana (risalente a Deiotaro, alleato di Pompeo, e inclusa nell’esercito romano con l’annessione del regno di Galazia). Entrambe erano di stanza ad Alessandria ed avevano distaccamenti in tutti i nomi delle tre epistrategie. Ottaviano restò in Egitto fino alla primavera del 29, disponendo, ordinando, organizzando, visitando. Unì l’utile al dilettevole, spostandosi come turista ad ammirare in primo luogo la tomba del grande Alessandro e poi tutto il territorio (il Nilo, il delta, i canali, le cataratte, le oasi, i porti, le città, le sfingi, le piramidi, i templi) e conoscendo e facendosi conoscere dai nuovi sudditi (i contadini, gli scribi, gli amministratori locali, i sacerdoti). Gli restarono scolpite nella mente e negli occhi le scene dal vivo della piena del Nilo (da ragazzo aveva certamente avuto modo di ammirarle “fotografate” nel grandioso mosaico di Praeneste, raggiunta da Velletri seguendo la Mactorina), che finalmente ritornava – felice segno dei tempi - dopo due anni di siccità. Restò indubbiamente colpito dai monumentali obelischi e formò il progetto di trasportarne alcuni nella capitale dell’impero. Sulla strada verso Roma, si fermò in Campania ad Atella (la patria delle atellane) per curarsi la gola. Gli era andato incontro il suo amico e d’ora in poi “ministro della propaganda” Mecenate, il quale, nella modesta casetta di Virgilio, si avvicendò col poeta per leggergli, durante quattro giorni di seguito, tutti i 2188 versi dei quattro libri delle Georgiche, appena terminate. Ottaviano apprezzò. Apprezzò l’impianto generale e l’invito fin troppo chiaro rivolto ai romani di coltivare la terra: i cereali, la vite, l’olivo, di allevare il bestiame: i buoi, i cavalli, le pecore, le capre, di dedicarsi all’apicoltura. Apprezzò l’idea del lavoro, quello agricolo in ispecie, come un valore morale e culturale. Apprezzò le numerose sviolinate a lui disseminate qua e là (la dedica, i prodigi, le lodi, le invocazioni, la pace finalmente ritrovata). “Suggerì” una sola modifica: espungere il passo dedicato a Caio Cornelio Gallo, grande amico di Virgilio, da Ottaviano stesso nominato primo prefetto dell’Egitto, ma che cominciava a dare segni di eccessiva indipendenza. Virgilio, per quanto dispiaciuto, superò se stesso e sostituì il passo con la mirabile digressione della favola di Orfeo ed Euridice. Ottaviano dunque fu soddisfatto del lavoro fin qui svolto, ma ritenne che si dovesse passare ad altro, e commissionò un nuovo poema epico, che sarà l’Eneide e che impegnerà il poeta di Mantova per tutti i prossimi ed ultimi dieci anni della sua vita. Il trionfo, decretato dal Senato, fu celebrato il 14 agosto per la vittoria conseguita ad Azio e il giorno seguente per la conquista dell’Egitto. Partito dal Campo Marzio, fuori del pomerio, il corteo entrò in città per la Porta Trionfale (lì il generale vittorioso, l’imperator, depose - come era doveroso costume - il suo potere militare, l’imperium, mentre i legionari deponevano a loro volta le armi) e si diresse verso il Circo Flaminio, costeggiò il rotondo Tempio di Vesta (aperto come tutti gli altri templi lungo il percorso in modo che anche gli Dei potessero assistere alla fastosa cerimonia. Chiuso era stato, e con gioia universale, il solo Tempio di Giano Quirino, sull’Argileto nel Foro) e si immise nel Velabro ricco di botteghe da dove passò nell’antico grande mercato del Foro Boario e da qui al Circo Massimo nella valle tra il Palatino e l’Aventino adorno della bellissima cavea fattavi disporre da Cesare e dei sette delfini contagiri disposti sulla spina da Agrippa solo pochi anni prima. E finalmente svoltò sulla Via Sacra per puntare diritto alla meta finale: il Tempio di Giove sul Campidoglio, in alto sulla salita del Clivus Capitolinus. Annunciati da suonatori di corni e trombe ricurve (le buccinae), tirati ciascuno da una coppia di buoi alternativamente bianchi e neri, aprivano il corteo un gran numero di carri senza sponde sui quali erano state disposte le parti più significative del bottino: armi, insegne militari, statue, tavole in rame, colonne, piccoli obelischi, mummie di animali, barche, oggetti preziosi, casse di monete, tessuti di lino, opere d’arte di oro, di argento, di avorio, di porfido, di vetro, grandi plastici e disegni rappresentanti l’Egitto in vedute prospettiche (il Nilo, le città, i templi, le piramidi, le oasi, animali, alberi e piante), due grandi quadri di Apelle rappresentanti uno la Vittoria e Alessandro Magno, l’altro la Guerra con le mani legate dietro la schiena e Alessandro vincitore sul carro. A suscitare lo stupore generale, con lunghe catene e picche appuntite, dei servitori in gonnellini colorati trascinavano o spingevano sul selciato compatto animali mai visti fino ad allora: coccodrilli, ippopotami, scimmie, ibis. Altri servitori portavano grandi ceste di vimini stracolme di frutta esotica: fichi, melograni, datteri, giuggioli, carrubi; altri ancora procedevano con cesti di farro, orzo, lenticchie; altri, infine, con anfore di olio, di vino, di birra, di miele; altri con fasci di papiri … Seguivano, solenni e mirabili coi loro laticlavi di porpora sulle toghe bianchissime, i membri del Senato. Poi i magistrati in carica: il console Sesto Apuleio scortato dai littori, e in ordine di importanza: i diciotto Pretori, i due Censori, i sei Edili, i dieci Tribuni, i quaranta Questori. Venivano poi i sacerdoti: il Rex sacrorum, il Flamine Diale, il Flamine Marziale, il Flamine Quirinale, i dodici Flamini minori, i Settemviri epuloni, le Vestali veneratissime, gli Auguri, gli Aruspici, i Quindecemviri sacris faciundis, i dodici Arvali, i sodali Tizi, i venti Feziali guidati dal Pater Patratus, i dodici Salii Palatini e i dodici Quirinales guidati dai rispettivi Magistri, i Curioni, la sacerdotessa della Dea Bona, i ventiquattro Luperci, i Vicomagistri. Assente era solo il Pontefice Massimo, l’ex triumviro Marco Emilio Lepido, che si era volontariamente esiliato al Circeo e conserverà la carica, che era a vita, fino alla sua morte nell’anno 13. Dietro di loro una turba innumerevole di prigionieri egizi dalla pelle olivastra e il capo rasato ed etiopi nerissimi dai capelli ricci, e poi ex funzionari e dignitari e scribi del cessato regno d’Egitto con i loro abiti esotici.