Primi di agosto dell’anno 30. Ottaviano, lasciato morire suicida l’ultimo rivale, Marco Antonio, aveva un solo grande desiderio: impadronirsi di Cleopatra viva per trascinarla a Roma in catene dinanzi al carro del suo trionfo.
di Ciro Gravier
Gruppo Archeologico Veliterno - Prima Parte
Ma si rese subito conto che la cosa non gli sarebbe stata possibile: il Mausoleo in cui la regina si era asserragliata era pressoché imprendibile o, almeno, Cleopatra avrebbe avuto mille volte il tempo di suicidarsi prima che un soldato romano le mettesse le mani addosso.
Allora fu magnanimo: aspettò freddamente una settimana e penetrò nel Mausoleo a cose fatte. Trovò la regina morta, serenamente composta su un letto prezioso. Si raccontò che si era fatta mordere da un aspide introdotto nel Mausoleo nascosto in un cesto di fichi portato da un contadino. Studi recenti hanno concluso che il veleno di tali serpenti è dolorosissimo, ma non garantisce la morte: per cui è più probabile che Cleopatra abbia assorbito anche una miscela di veleni che ella portava sempre con sé nel cavo di una spilla dorata per i capelli. Con lei finiva l’ultima dinastia dei Faraoni, risalente ad Alessandro Magno e al suo diadoco Tolomeo. O piuttosto no: c’erano ancora i suoi figli: i tre piccolissimi avuti da Antonio e il più grande, Cesarione, alias Tolomeo XV, ormai diciassettenne, avuto da Cesare. I piccoli potevano agevolmente e senza alcun pericolo essere portati a Roma, ma il grande, che Antonio aveva proclamato erede di Cesare e la fronda in Egitto e a Roma poteva sfruttare per opporglielo contro, doveva essere soppresso. Subito. Per proteggere lui e la sua discendenza, Cleopatra l’aveva inviato lontanissimo da Alessandria, nella città meridionale di Berenice, sul Mar Rosso. Un drappello di soldati romani riuscì finalmente a raggiungerlo, e fu strangolato. Ora poteva cominciare l’Egitto romano. C’è un problema. Alto come un obelisco e vasto quanto una piramide. Per governare l’Egitto ci vuole un Faraone. Ma i Romani, ai quali lo stesso termine di “re” sembra una mostruosità, accetteranno mai un Ottaviano faraone? Indubbiamente i Romani no, ma gli Egiziani sì. Unica soluzione: almeno per il tempo strettamente necessario, nessun Romano (anzi, meglio: nessun senatore o eques di una certa importanza) avrà l’autorizzazione di metter piede in Egitto. Di converso, nessun funzionario egiziano potrà esercitare ruoli che diano accessi al Senato. All’interno dell’Egitto, i sacerdoti venereranno il nuovo padrone come il nuovo faraone, anche se una cerimonia ufficiale di incoronazione e intronizzazione non ci sarà mai. Nell’Egitto profondo, dove più difficile risultava accettare il nuovo padrone che non fosse faraone, Augusto si lascerà rappresentare nei nuovi templi (peraltro fatti erigere da lui stesso) in veste di faraone con tanto di abiti e copricapo tradizionali, nella gestualità ieratica tipica degli antichi sovrani d’Egitto. A Figeac, in Francia, dove è stato portato da Champollion, si conserva un magnifico frammento policromo proveniente dal tempio di Kalabsha nella Nubia meridionale, che lo rappresenta così. Tutto questo però a Roma non si doveva sapere. Con l’occasione, fu introdotta una nuova categoria giuridica nell’amministrazione dell’impero: quella delle “province imperiali” distinta dalle vecchie “province senatorie”. Le prime – tra cui l’Egitto – per la loro posizione strategica e fino a nuovo ordine (che durò pressocchè immutato fino al tempo di Adriano), dipendevano direttamente dall’imperatore che le amministrava attraverso un proprio legatus scelto direttamente da lui e al quale soltanto rendeva conto, le seconde – in quanto provinciae populi romani - continuavano la tradizione repubblicana ed erano gestite dal Senato che vi nominava un governatore, detto propretore, scelto fra i suoi membri. A partire dal 29, il titolo del governatore dell’Egitto sarà praefectus Alexandriae et Aegypti e finchè Ottaviano Augusto sarà in vita, ce ne saranno successivamente (con brevi interruzioni gestite direttamente da lui) non meno di undici: in media meno di quattro anni per ciascuno, il che dimostra l’attentissima attenzione e il pignolo controllo che l’imperatore vi esercitava. Aveva bisogno infatti che vi regnasse la pace, o almeno l’ordine, e che dall’Egitto giungesse regolarmente il rifornimento di cereali (due milioni di quintali annui) per la plebe di Roma insieme a grandiosi monumenti (specie obelischi) con cui abbellire l’Urbe facendo strabiliare il popolo. Per non suscitare malumori e pericolose opposizioni, Augusto si guardò bene dal dedurvi colonie, per cui l’Egitto di dopo la conquista restò socialmente e culturalmente a lungo quello che era all’epoca degli ultimi Tolomei. La popolazione, calcolata intorno a sette milioni e mezzo di abitanti, si divideva in tre grandi gruppi “nazionali”: i Greci (non più di qualche centinaio di migliaia), gli Ebrei (forse intorno a un milione e mezzo) e finalmente la grandissima massa degli Egizi; la lingua greca della κοινή fu mantenuta come lingua dell’amministrazione e della burocrazia, quella latina restò ristretta fra i militari romani delle tre legioni di stanza (si ritiene non abbiano mai superato i ventimila uomini), e quella egizio-demotica come strumento vivo della comunicazione dell’immensa massa del popolo, mentre l’egizio ieratico continuava nell’ufficialità religiosa e nella liturgia. Il Pantheon egizio fu scrupolosamente rispettato anche se il culto imperiale venne lentamente introdotto. Il ceto dei sacerdoti finì una volta per tutte di essere quella lobby potente che in alcuni momenti dell’Egitto faraonico era stato in grado di mettere in scacco motto l’autorità dello stesso faraone, e fu strettamente controllato dal potere politico mediante l’ἀρχιερεὺς Ἀλεξανδρείας καὶ πάσης Αἰγύπτου, che era sempre un cittadino romano.