SECONDA PARTE: La comitiva intraprese la salita al santuario. Cammin facendo, si industriavano a confrontarlo con altri grandiosi santuari ai quali si erano recati altre volte.
di Ciro Gravier
Il Lanuvino esaltava quello notissimo e frequentatissimo di Giunone Sospita dall’architettura più ampia e più piana e quindi più accogliente, degli Ulubresi uno decantava il tempio celeberrimo di Giove Anxur a Terracina imponente e sfarzoso sulla sua terrazza porticata a strapiombo sul mare; l’altro i due templi di Tibur: quello circolare di Vesta sul suo alto basamento e quello contiguo della Sibilla lassù sull’acropoli.
Due Velletrani ricordavano l’impressione di trattenuto terrore sperimentata alla vista del monumentale santuario di Diana Aricina che improvvisamente compariva agli occhi incantati del visitatore tra la selva oscura del monte e l’azzurro cupo del lago. L’Arianese parlava del tempio di Ercole sulla sommità della collina di Cora. Ottavio soltanto taceva, rivedendo nella mente tutti i santuari che i suoi compagni descrivevano a gara, pensava a quello antichissimo della sua Velletri con la temibile Gorgone sul frontone e la splendida decorazione arcaica. Rifletteva sulla religiosità così evidente e diffusa in tutto il territorio del Lazio sin da tempi antichissimi e sulla necessità di mantenerla viva e preservarla da tante contaminazioni straniere. Rimpiangeva che proprio a Roma non ci fosse un tempio dall’architettura così magnifica, e fantasticava di erigerlo lui un giorno. Quando finalmente giunsero al Tempio rotondo, si chinarono in silenzio dinanzi al simulacro di purissimo marmo bianco della Fortuna Primigenia che portava in grembo e offriva il seno a Giove fanciullo e Giunone. Non chiesero alla Sibilla di aprire il suo cofanetto di olivo per estrarre le sortes con cui pronunciare i suoi oracoli in fondo alla grotta buia. Si accontentarono di offrire alla dea una ciotola di latte. Ridiscesero di terrazza in terrazza fino al primo livello dove era la Basilica sulla cui facciata, rivolta a mezzogiorno, si trovava il tanto celebrato, e dai nostri giovani mai visto prima, orologio solare. Conoscevano, sì, la meridiana che con un solo gnomone indicava le ore del giorno mediante l’ombra proiettata dal sole, ma questo era un vero e proprio orologio, con una splendida lastra marmorea su cui erano scolpiti tanti solchi diversamente curvi e vi erano fissati inclinati tanti gnomoni metallici quante erano le ore. Nel mezzo, in verticale, c’era l’ora sesta (che con un termine arcaico era indicata come MEDIDIES). Obliquamente precedevano le ore III, IV e V, e seguivano le ore VII, VIII e IX. I solchi delle ore, piuttosto che essere una linea sottile, erano invece molto ampi perché dovevano comprendere ciascuno la sua ora non solo per i due giorni degli equinozi, ma per tutte le stagioni dell’anno. Da lì si diressero all’Aula Magna del Foro alla quale introducevano due obelischi di granito rosso ai due lati dell’ingresso. Varcata la soglia, si trovarono in una vasta sala rettangolare intorno alla quale correva un podio tutto metope e triglifi da cui si alzavano le colonne che sostenevano la volta e, fra le colonne, nicchie con statue a profusione. Nella sua parte absidata, in fondo, uno stupendo immenso pavimento a mosaico, leggermente inclinato, dai colori delicati sprigionanti una luce sorprendente rappresentava l’Egitto durante l’inondazione del Nilo, la quale era resa reale dal velo d’acqua che scorreva sull’intero mosaico. La luce, delicata e chiara, proveniva dalle due alte finestre in fondo. Come il santuario, esso pure era da affrontarsi dal basso verso l’alto seguendo le terrazze che qui erano altrettante fasce da percorrere attentamente a zig-zag, quasi un autentico eppure immaginario viaggio in Egitto dal delta al medio corso del Nilo alle cateratte ai territori selvaggi della Nubia e dell’Etiopia. Un Egitto straordinario, visto tutto intero in un solo colpo d’occhio, come osservato dall’alto, a volo d’uccello, o dalla cima del grande faro di Alessandria, una delle sette meraviglie del mondo. Nella parte inferiore era riassunta la capitale Alessandria, con un portale d’ingresso del grande porto, e una torre su cui insisteva un’alta palombaia a gradini, un reparto di militari che si accingevano ad una cerimonia lungo l’Eptastadio sotto il pronao di un tempio tetrastilo che si prolungava con un prezioso parapetasma. Nello specchio d’acqua si svolgeva un’intensa attività marinara: scivolavano leggeri un battello mercantile dall’ampia cabina, a vela quadra spinta da Notos, il vento del sud, e una barchetta di papiro a remi dai bordi ricurvi, mentre correva veloce una bireme militare agli ordini del trierarca ritto sulla tolda. Più in là, sotto un’elegantissima pergola ad arco di vimini sapientemente intrecciati da cui pendevano grossi grappoli d’uva bianca e rossa, due uomini e una donna svolgevano un banchetto campestre: ciascuno aveva la sua coppa in mano e si accingevano a fare un brindisi mentre la musicista in piedi alle loro spalle pizzicava sapientemente con le dita un salterio dalle molte corde. L’altro trio dirimpetto – i due gruppi sono separati dal canale del Canopo – sta terminando il suo augurio: sono un uomo che leva in alto il rhyton mentre una donna gli cinge il corpo seminudo con il braccio destro e tiene quello sinistro levato con l’indice in alto nel gesto del richiamo, mentre un musico suona il flauto traverso. Ai nostri giovani visitatori, in assorto silenzio dinanzi ad una scena così viva e oniricamente serena, sembrava di udire le voci di quei personaggi e la musica dolce e prolungata del flauto alternata alle note magiche e vibranti del salterio, con il sottofondo dello sciabordio delle acque del grande fiume solcato dalle imbarcazioni leggere e punteggiato dai fiori di loto. La scena all’estrema sinistra in basso con coccodrilli insidianti gli ippopotami introduceva al registro superiore. L’ippopotamo era riuscito a mettersi in salvo su un isolotto, ma sopraggiungeva veloce, spinto da sei remi e frenato da due pale, un elegantissimo thalamegos dalla prua a becco di uccello e la poppa a coda di pesce, da sopra al quale si accingevano a colpirlo due cacciatori con lunghe lance sottili, mentre il padrone, seduto in cabina, osservava soddisfatto e incoraggiava. Più in là, su un altro isolotto, una capanna, vista di scorcio, dava l’impressione di navigare essa pure: dietro di essa, un pastore lasciava abbeverare la sua mucca, dinanzi alla porta si ritrovavano due contadini con forconi a tre punte, e tutt’intorno svolazzavano ibis e cicogne. Salendo con lo sguardo sul mosaico, ossia scendendo lungo il Nilo verso sud, i giovani escursionisti si ritrovarono nel medio Egitto. Il nilometro, anch’esso visto dall’alto in modo da mostrare l’altezza raggiunta dalla piena (l’acqua aveva quasi raggiunto il terzultimo livello del pozzo), che faceva sperare in un ottimo raccolto e una adeguata corrispondente tassazione, stava ad indicare che si era alla prima cataratta, all’isola sacra di Philae, da dove inizia l’Egitto fertile. Dinanzi al tempietto di Hathor, rappresentato in prospettiva, un sacerdote fra due obelischi, in lunga veste bianca, con la destra levata, invocava il Dio. Tutto risplendeva alla luce del sole, senza ombra alcuna: era mezzogiorno. Seguivano altri edifici intervallati da palmizi e sicomori e, infine, ecco si ergeva la facciata maestosa del Tempio rupestre di Meha - Abu Simbel, con il dio-falco sulla porta d’ingresso e le quattro colossali statue del faraone Ramses che proiettavano alle loro spalle l’ombra verso est, sicchè era possibile calcolare l’ora del giorno in cui l’immagine era stata “presa”: il primo pomeriggio. In tal modo, l’artista musivo, che si diceva essere stato l’alessandrino Demetrio il Topografo, aveva riprodotto, semplificandolo ad uso pedagogico, il celebre esperimento di Eratostene che due secoli prima aveva misurato il meridiano terrestre calcolando l’angolo di incidenza dell’ombra solare nello stesso momento in due luoghi distanti il giorno del solstizio d’estate. Infine, risalendo verso la parte più alta del mosaico, ossia scendendo geograficamente verso il profondo sud, ovvero l’Alto Egitto, si innalzavano progressivamente i territori montuosi e selvaggi della Nubia e poi dell’Etiopia, dove il Nilo scorreva tra rocce a strapiombo e gli unici abitanti erano gruppi di cacciatori neri primitivi con scudi, lance e frecce, e belve così strane da dover essere indicate con il proprio nome in greco: una specie di dizionario zoologico-ambientale illustrato, del tipo di quelli che certamente esistevano nella Biblioteca di Alessandria. I giovani si industriarono a contarli una prima, una seconda, una terza volta. C’era da perdere il capo. Alla fine convennero che – forse - erano trentasette, escludendo i pesci e gli uccelli. Ma se i cinghiali, le tigri, la leonessa, le giraffe, le scimmie, i serpenti, il sauro gigante, il boa, la lontra, i coccodrilli, il rinoceronte – animali quasi tutti mai visti, ma di cui si conosceva l’esistenza - effettivamente avevano un aspetto zoomorfo, che cosa dire invece del drakos, della crocotta, del nabus, degli inantes, del porco scimmia, e più ancora, della scimmia a testa di leone, della lince o della onocentaura dai volti di donna? Si trattava di animali veri oppure, più verosimilmente, di animali mitici o mitologici o puramente fantastici, che gli Egizi immaginavano esistessero nelle terre quasi del tutto sconosciute, e comunque ostili, al di là del loro indistinto confine meridionale, oltre la prima, la seconda, la terza, la quarta, la quinta, la sesta cataratta? Fu questo l’argomento che li tenne occupati per tutto il viaggio di ritorno. Fu questo che non fece chiudere occhio ad Ottavio per tutta la notte, mentre le rane gracidavano vicine e il Nilo scorreva lontano in un Egitto da domesticare…