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"Un respiro affannato": Juana Romani, da Velletri al mondo, centocinquanta anni dopo

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Juana Romani riposa in una tomba simile a molte altre nel cimitero del piccolo comune di Suresnes, vicino Parigi. Di lei una lapide, una croce ormai distrutta e consumata dal tempo e un medaglione, la medaglia d'argento che vinse in occasione della grande Esposizione Universale del 1889.

di Gabriele Romani


Il cielo grigio delle fredde contrade francesi accentua, nel chiuso silenzio tipico dei luoghi di riposo, un senso di tristezza che pesantemente risuona assieme al riquiescat in pace scolpito sull'epitaffio. Su quel piccolo marmo un affastellarsi di nomi: Carolina, Giovanna, Juana, Giovannina, prima Carlesimo e poi Romani.
Una identità che sembra perdersi in ogni frammento del suo nome e poi ricomporsi nelle solide parole, artiste et peintre, artista e pittrice. Solo la morte poteva concedere la pace a questa donna che, dopo avere tanto lottato per la propria affermazione artistica e professionale, ripiegò su sé stessa, cadde non percependo più una terra sulla quale poggiare i piedi, quei «piedi bianchi» che, come scrisse su di lei il poeta Silvestre, calpestarono le cime più alte della «terra dell'Armonia», l'Italia. E' tutta una questione di equilibrio: dopo aver tanto volteggiato al suono crescente delle promesse della «capitale della modernità» ed essersi abbandonati ai sogni della belle époque, c'è chi resta in volo e si perde e chi invece torna consapevole sui propri passi. Juana Romani è una di quegli artisti che decisero di non far ritorno, forse perché tornare alla realtà sarebbe stato troppo doloroso: Picasso abbaia da lontano, Matisse si lamenta, Villette paventa arresti in grande stile, Monet pensa a sè. La pittrice muore all'età di cinquantasei anni in una tiepida giornata al principiare dell'estate, il 13 giugno 1923, nello Château de Suresnes, una casa di riposo destinata a «convalescenti, nevrastenici, nervosi, intossicati e psicopatici», una pleiade di alienati che vive sotto le dipendenze della prefettura della polizia e del dipartimento della Senna. La struttura era rinomata, già Elliott, fratello del presidente degli Stati Uniti d'America Theodore Roosevelt vi era stato ricoverato per problemi di alcolismo, mentre nel 1934 l'asilo accoglierà per schizofrenia la danzatrice Lucia Joyce, figlia dello scrittore James. Il manicomio, andato distrutto a seguito della Seconda Guerra Mondiale, si trovava al numero 10 della quai Gallieni, dopo il ponte e la fabbrica di profumi del fascistoide François Coty, dalla quale a volte poteva scappare una fragranza d'iris. Immersa nel verde di un grande parco, dopo un basso cancello e un gabbiotto, si entrava in quella prigione dalla facciata bianca: Juana muore lì, nella sua stanza, sola, mentre a Parigi suonano le campane che ribadiscono la fine di un'epoca già annunciata dalle sirene della Grande Guerra. Lo stesso giorno della sua morte, nella capitale si celebrano i funerali nazionali dello scrittore Pierre Loti, mentre vanno all'ultima asta di successione gli oggetti e i mobili appartenuti alla diva Sarah Bernhardt: «tutto passa», «gli stessi dèi muoiono», scrive Théophile Gautier ne L'Art.
Per le cineserie, qualche vetro veneziano, per i vasi Gallé e Daum non restavano che i nostalgici. Juana giace sul suo letto di morte cieca e deforme, come se avesse appena finito di lottare corpo a corpo con i suoi mostri. Molti raccontano che volle spirare circondata dai soldi che aveva accumulato nel corso della sua carriera artistica, come a voler chiudere il sipario della vita all'urlo del «ce l'ho fatta!». Il principe Giovan Battista Borghese, nel suo libro L'Italie Moderne, aveva compreso il dramma che visse la pittrice «la cui intelligenza venne meno sotto i piedi del suo troppo rapido successo». Juana Romani non era riuscita a inficiare quella legge formulata ne L'Étape di Paul Baurget, sull'impossibilità di elevarsi troppo rapidamente nella scala sociale senza distruggersi e ad astrarsi da quello che Baurget chiama il «problema della vita umana», «il problema della famiglia». Lei è e rimane figlia di una sarta analfabeta e di un brigante che non conoscerà mai, figliastra di un musicista nella cui famiglia non verrà mai accettata, una donna che con ambizione tenta di imporsi a parità degli uomini e di penetrare da parvenue gli strati sociali più alti: quella pittrice dalla leggera «pronuncia trasteverina», amica dei Rothschild, dei principi Borghese, dei Murat, non più italiana, ma neanche francese, autoesiliata dal gruppo delle donne pittrici e scultrici e dalla comunità viva degli artisti italiani a Parigi, soccombe.

[ Ritratto di Juana dipinto di Roybet e un nudo di Picasso ]

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