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Tra leggenda, storia, e mito la vicenda sacrale (e la scia di sangue) dietro alla figura del Rex Nemorensis

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Esistono delle storie tramandate di secolo in secolo, interpretabili solo nel breve margine di contatto tra storia, mitologia e antropologia. 


Ci parlano di usanze ormai perdute nel tempo, nel corso di quello che alcuni definiscono “progresso”, eppure ancora utili a spiegare le nostre radici culturali più profonde, a volte dimenticate o represse con operazioni di freudiana memoria.

Nel novero delle testimonianze documentarie che nel corso del tempo hanno mobilitato maggiormente la fantasia e l’impegno degli studiosi rientra quella del rex nemorensis, sacerdote che secondo quanto ci è trasmesso dalla tradizione soleva calcare i boschi ombrosi e folti dell’area circostante al lago di Nemi, gli stessi che diedero in seguito il nome all’odierno toponimo.

Se qualcuno oltre agli esperti del settore ancora si ricorda di questa particolare figura, che risale al mondo pre-romano e riassume in sé alcuni tratti ancestrali della nostra civiltà, il merito probabilmente è di un libro scritto ormai nell’ultimo decennio dell’Ottocento, Il ramo d’oro di Sir James George Frazer, che decretò la fortuna del rex nella cultura e nella letteratura successiva rendendolo un personaggio noto al pubblico proprio per la sua inafferrabilità, per quella distanza cronologica che consente comunque di rintracciare nel passato qualcosa che ancora ci riguarda. Nonostante il metodo di interpretazione di Frazer non fosse corretto filologicamente e sia stato ormai superato dai moderni studi antropologici e storici, il suo merito sta nell’aver portato di nuovo in superficie, prima ancora che emergessero delle concrete evidenze archeologiche, una storia rimasta altrimenti sepolta nelle fonti letterarie e nei racconti affabulatori dei più anziani. Tentando di sceverare la realtà da quanto vi ha aggiunto in seguito la fantasia, la figura del rex nemorensis si presenta in primo luogo come un uomo che si poneva agli antipodi della scala sociale, in una condizione di schiavitù che nel mondo antico era diffusa ma non di ostacolo, almeno nei tempi arcaici, a una possibile ascesa.
Questo stato magmatico, in continuo rivolgimento, poteva consentire a uno schiavo fuggitivo di assumere un ruolo rispettabile all’interno del gruppo sociale, quella condizione di sacerdote che permetteva un controllo sulle pratiche religiose fondamentali per la coesione di una comunità. Ma la carica sacrale di rex nasconde in realtà, dietro la sua apparenza pacifica, una lunga scia di sangue: non esisteva alcuna forma di ereditarietà e poteva assurgere a questo ruolo solo chi feriva mortalmente il rex precedente, sfidandolo tramite un ramo spiccato dall’albero sacro del santuario di Diana, quel ramo che sulla scorta di Virgilio Frazer interpretò come proveniente dal vischio, arbusto dalle bacche aurate. La contraddizione sembra però essere alla base di tutti i racconti delle fonti: il personaggio che regnava sul santuario era allo stesso tempo anche uno schiavo fuggitivo, un emarginato sociale; egli era un sacerdote ma si trovava sempre in pericolo di vita ed era costretto a essere sempre armato contro le eventuali aggressioni dei possibili successori, aspiranti al ruolo di rappresentante della comunità. Già dopo alcuni secoli il violento rituale di successione divenne incomprensibile agli occhi degli stessi antichi e venne relegato, a causa del cruento sacrificio umano alla sua base, nella categoria di usanza efferata, mentre allo stesso tempo l’avvicendamento che avveniva nel santuario aricino fu interpretato attraverso dei paralleli mitologici e spiegato alla luce di consonanze con vicende parimente sanguinarie. Questa figura protostorica, molto precedente all’età romulea, detentrice di un potere acquisito per predominanza individuale che ne garantiva il vigore, nonostante le diverse riletture che la hanno accompagnata attraverso i secoli potrebbe continuare a vivere nel nostro orizzonte culturale con un nuovo sforzo esegetico.
Infatti lo scontro, la violenza e la lotta per il controllo del potere riguardava i nostri antenati almeno quanto riguarda noi oggi, sommersi dalle guerre che avvengono quotidianamente fuori, tra e dentro di noi. Le storie, anche quelle più innocue, non sono solo un felice incontro tra passato e immaginazione ma anche veicolo di attiva riflessione sul presente, con tutta la responsabilità che questa operazione comporta.

Valentina Leone

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