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L'Anfiteatro Romano di Velletri: un'arena da 10.000 posti a testimonianza della grandezza della città

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Nella seconda metà del Cinquecento durante i lavori di costruzione del Palazzo dei Priori, il Palazzo Comunale del tempo, una lapide frantumata in nove frammenti fu rinvenuta «sotto la Torre di Messer Theofilo Fosco», ancora identificativa dell’attuale via Furio. 


Eretta in memoria dell’evergete Lollius Cirius l’epigrafe del IV secolo a.C., conservata nel Museo Archeologico Oreste Nardini, ricordava il restauro dell’anfiteatro di Velletri, monumento del quale si sono totalmente perse le tracce, almeno se si rimane fermi a una approssimata stima delle rovine visibili.

L’anfiteatro con la sua forma ellittica, ideale per disporre gli spettatori intorno all’arena, nonostante sia uno degli edifici connotativi della civiltà romana non era generalmente prerogativa di tutte le urbes dell’impero. Nella sua opera Degli anfiteatri e singolarmente del veronese, stampata nel 1728, l’erudito Scipione Maffei notava già, con una certa acutezza, che se in ciascuna città fosse stato presente un anfiteatro non sarebbero state scarse le testimonianze facenti riferimento a queste strutture. A proposito riportava l’esempio di due lapidi, trascritte in antichi volumi, che attestavano l’esistenza di anfiteatri a Lucus Feroniae, oggi nel comune di Capena, e proprio a Velletri. Probabile che Maffei, nel suo ripercorrere le fonti di antiquaria, avesse ripreso le segnalazioni del medico e letterato Ascanio Landi (1527-1607), il quale nel 1564 all’interno del Compedio delle cose della città di Velletri, prima storia della città castellana, trascrisse il contenuto di una lapide commentando lo stato di abbandono in cui versava l’intero sito: «L’epitafio l’ho notato con molta fatiga, poiché la negligenza di chi può, tiene ascosa così degna memoria, sotto quelle antiche ruine, la quale per ornamento della città dovrebbe esser tolta di sotto terra, e messa in luogo aperto e publico». Una voce, quella di Landi, che giunge da lontano e denuncia una realtà purtroppo non mutata dal trascorrere di cinque secoli.
Ciò che è rimasto di uno dei 230 anfiteatri riconosciuti in tutto il territorio di estensione dell’impero romano permane ancora sottoterra, una passeggiata nelle cantine dei palazzi e dei negozi in prossimità di piazza Mazzini potrebbe facilmente portare a intersecarne le mura massicce o a scoprire i resti marmorei della cavea che si trovava a breve distanza dal Foro. Una delle poche indicazioni per ricostruire le fogge dell’anfiteatro veliterno giunge dall’evanescente contenuto dell’iscrizione, scritto in un latino già contaminato nella sua classica tempra dal volgare: «Lollius Cirius principe della curia fece fare 12 piloni a proprie spese/ per ripristinare nel primitivo aspetto l'anfiteatro cadente in rovina/ con le porte posteriori e l'intera arena». Le informazioni ricavabili dalla lapide consentono di ricostruire per l’anfiteatro di Velletri una storia eccezionale: se rimane oscillante la data di costruzione, tra età monarchica e periodo imperiale, certa è l’attenzione prestata nel IV secolo d.C. da un uomo pubblico dell’allora Velitrae per il restauro di uno dei luoghi socialmente riconosciuti come identitari, in un momento in cui, al contrario, la forza del cristianesimo cominciava a spingere per l’abbandono di queste strutture etichettate negativamente per la loro compromissione con il lato violento dell’otium. Le dimensioni dell’anfiteatro dovevano essere considerevoli, stando ai calcoli degli esperti competitive con le più famose strutture di Arles e Leptis Magna, ed erano in grado di ospitare circa 8.000-10.000 spettatori. Oltre le stime degli studiosi, che comunque pongono l’anfiteatro di Velletri su un gradino di pari dignità con le più ricche città della provincia dell’impero, l’effettiva estensione del monumento può essere valutata seguendo l’assetto curvilineo conservato da via san Crispino e via San Francesco, aderente alle antiche mura perimetrali dell’anfiteatro.
Foto: Panoramio
Un’ipotesi di conservazione e valorizzazione dell’area è venuta recentemente dal lavoro di tesi del dottor Luca Sgambetterra, discussa presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Torino, che certifica l’interesse e la passione per il patrimonio storico-artistico veliterno palpitante al di fuori della cerchia cittadina. Sebbene qualche cosa si sia mosso, rimane tuttavia ancora vivido l’ammonimento di Landi: far emergere dal loro passato polveroso le rovine dell’anfiteatro di Velletri significa, in primo luogo, portare ornamento culturale e artistico alla città, restituire finalmente agli spazi della vita quotidiana un luogo concepito come pubblico.

Valentina Leone

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