Stazioni ferroviarie deserte, di sera, abituate a vivere solo in determinati momenti della giornata, con frotte di passeggeri distratti che poggiano valige e sventolano fazzoletti; eppure luoghi del cuore, anche se forse risultano un pò stretti ad Elio Vittorini (1908-1966). Ed è così che, sfruttando il privilegio concesso ai figli dei ferrovieri, quello di poter viaggiare in treno gratuitamente, l'inquieto e ribelle autore siracusano va a "vedere il mondo", parole sue, salendo su questo o su quel convoglio.
Dopo essere fuggito di casa più volte, lascia definitivamente la Sicilia per intraprendere la carriera giornalistica. Dalle prime esperienze narrative, lette con acume e passione da Curzio Malaparte, viene fuori subito il carattere anticonformista e particolare di uno scrittore che sembra dover diventare proprio per la sua geniale e imprevedibile stranezza un protagonista del Novecento: le accuse nette, taglienti, di provincialismo e scarsa visione d'insieme alla letteratura italiana sono il leitmotiv di "Scarico di coscienza", un articolo destinato a fare più rumore di una sbuffante locomotiva a vapore e scatenare l'indignazione dell'èlite culturale ufficiale visto l'uso incensurato di parole scomode e dolorose come "dilettantismo" e "ripetizione". Ci vuole un coraggio eversivo da dissidente per accusare la letteratura "bene" di non insegnare ormai più nulla, essendo diventata un contenitore vuoto e convenzionale.
Le sue posizioni furono quanto meno ossimoriche, perchè l'autore di "Piccola borghesia", la prima raccolta di racconti a firma Vittorini, si distingue e molto anche politicamente per essere un "fascista di sinistra": è iscritto al PNF, con o senza convinzione è ancora tutto da dimostrare, ma appoggia i repubblicani contro Franco, cominciando lentamente a produrre scritti antifascisti che lo avvicinano alle brigate comuniste clandestine e alla Resistenza. Il salto in alto a livello culturale, intanto, è breve: le premesse per emergere ci sono tutte.
Dopo gli inizi giornalistici con sparute apparizioni su carta stampata, arrivano le frequentazioni delle "Giubbe Rosse" o della casa di Drusilla Tanzi - la "Mosca", futura compagna di Montale, l'ingresso nell'èlite della cultura italiana è sancito. Un suo figlio sarà tenuto a battesimo proprio dal poeta e amico Eugenio Montale, mentre diventerà sua moglie Rosa Quasimodo, sorella di Salvatore, sposata nel 1927. Collabora sia con il "Bargello" che con "Solaria", dove nel 1933 pubblica (ma a puntate) "Il garofano rosso", la formazione personale di Alessio Mainardi che transita dall'adolescenza all'età adulta dal platonismo all'eros, fino alla passione politica prima vicina al fascismo e poi distaccata da un regime rigido come fredda era l'educazione impostagli dal padre. Un anno dopo un'intossicazione da piombo gli costa la rinuncia al lavoro di correttore di bozze. La sua firma è accostata al "Politecnico", all'"Unità", ma soprattutto ai grandi romanzi che vedono la luce nel fecondo periodo della maturità: "Conversazione in Sicilia" (1941), avventuroso viaggio di ritorno in un clima onirico di un protagonista indefinito - Silvestro - che torna nella sua terra natìa, naturalmente in treno; "Uomini e no" (1945) riconosciuto come il primo romanzo ufficiale della Resistenza, "Il garofano rosso" (unificato nel 1948), organicizzato come romanzo di formazione con tanti cenni autobiografici soprattutto relativi alla coscienza politica. Nel 1959 è l'accostamento ad un altro mostro sacro della letteratura italiana, quell'Italo Calvino che lo affianca nell'avventura letteraria - sostenuta da Einaudi - del Menabò, termine indicante un progetto grafico, una bozza, da modificare e completare.
Nel 1966 un cancro allo stomaco mette fine alla sua vita, nella casa milanese di viale Gorizia. La lunga malattia lo stronca senz'altro troppo presto, ma l'insegnamento lasciato all'Italia non è comunque indifferente. "La nostra paura del peggio è più forte del nostro desiderio del meglio": così ammoniva Vittorini, interpretando quelle sensazioni in parte inconsce e in contemporaneamente inquietanti che attraversano l'uomo e la sua essenza. E così quello scrittore che se avesse avuto i soldi e i mezzi per viaggiare non avrebbe scritto neanche "un rigo" diventa il compagno che pretende dal lettore una fiducia a prescindere, nascosto nell'ambiguità dialettica del suo ego, e costruisce con affreschi puntuali e lirici un mondo letterario un pò fantastico e un pò realistico, un pò sognante e un pò irriverente, proprio come la sua personalità (e la sua poetica). Dagli astratti furori è giunto ad un improcrastinabile e complesso sforzo di verità, in un viaggio coerente e veloce a bordo del treno della produzione poetica del figlio del ferroviere, che si allontanò anche dal comunismo (non sopportava l'adesione al pensiero di Stalin) per creare una sorta di vittorinismo, attento alle istanze di un popolo bisognoso di una cultura che liberasse dalle sofferenze, alleviasse il fardello degli esami che la vita pone davanti all'individuo. Veloce e diretto come un convoglio ferroviario, nei vecchi caselli della Sicilia "ammonticchiata di nespole, e tegole e rumori di torrente", si sente ancora anche l'anima di Elio Vittorini, proteso a trecentosessanta gradi nel combattere quell'ingiustizia e quella fame che rende ogni uomo pericoloso. Il treno del dualismo linguistico componenziale uomo/non uomo si è fermato nel 1966, ma continua a camminare e fare avanti e indietro con le continue ristampe delle sue opere, in un servizio a spola popolato da centinaia di passeggeri amanti di quel valore di gratitudine protetto e cullato da una cultura autorevole e benigna.
L'immagine della ferrovia che è veicolo positivo della voglia di fuga, di conoscenza, di amore e di pulsioni e ha caratterizzato l'esistenza di Elio Vittorini è solo una delle tante istantanee di vita regalate al lettore. "È difficile associare l'idea della morte - e fino a ieri quella della malattia - alla figura di Vittorini. Le immagini della negatività esistenziale, fondamentali per tanta parte della letteratura contemporanea, non erano le sue: Elio era sempre alla ricerca di nuove immagini di vita. E sapeva suscitarle negli altri". Parola di Italo Calvino, l'amico e il collega, che riuscì a sintetizzare la vitalità di uno scrittore integrato nel tessuto letterario dei grandi del tempo, incapace di perire per la sua ostinata voglia di scrivere, di viaggiare, di sognare.
Dopo gli inizi giornalistici con sparute apparizioni su carta stampata, arrivano le frequentazioni delle "Giubbe Rosse" o della casa di Drusilla Tanzi - la "Mosca", futura compagna di Montale, l'ingresso nell'èlite della cultura italiana è sancito. Un suo figlio sarà tenuto a battesimo proprio dal poeta e amico Eugenio Montale, mentre diventerà sua moglie Rosa Quasimodo, sorella di Salvatore, sposata nel 1927. Collabora sia con il "Bargello" che con "Solaria", dove nel 1933 pubblica (ma a puntate) "Il garofano rosso", la formazione personale di Alessio Mainardi che transita dall'adolescenza all'età adulta dal platonismo all'eros, fino alla passione politica prima vicina al fascismo e poi distaccata da un regime rigido come fredda era l'educazione impostagli dal padre. Un anno dopo un'intossicazione da piombo gli costa la rinuncia al lavoro di correttore di bozze. La sua firma è accostata al "Politecnico", all'"Unità", ma soprattutto ai grandi romanzi che vedono la luce nel fecondo periodo della maturità: "Conversazione in Sicilia" (1941), avventuroso viaggio di ritorno in un clima onirico di un protagonista indefinito - Silvestro - che torna nella sua terra natìa, naturalmente in treno; "Uomini e no" (1945) riconosciuto come il primo romanzo ufficiale della Resistenza, "Il garofano rosso" (unificato nel 1948), organicizzato come romanzo di formazione con tanti cenni autobiografici soprattutto relativi alla coscienza politica. Nel 1959 è l'accostamento ad un altro mostro sacro della letteratura italiana, quell'Italo Calvino che lo affianca nell'avventura letteraria - sostenuta da Einaudi - del Menabò, termine indicante un progetto grafico, una bozza, da modificare e completare.
Nel 1966 un cancro allo stomaco mette fine alla sua vita, nella casa milanese di viale Gorizia. La lunga malattia lo stronca senz'altro troppo presto, ma l'insegnamento lasciato all'Italia non è comunque indifferente. "La nostra paura del peggio è più forte del nostro desiderio del meglio": così ammoniva Vittorini, interpretando quelle sensazioni in parte inconsce e in contemporaneamente inquietanti che attraversano l'uomo e la sua essenza. E così quello scrittore che se avesse avuto i soldi e i mezzi per viaggiare non avrebbe scritto neanche "un rigo" diventa il compagno che pretende dal lettore una fiducia a prescindere, nascosto nell'ambiguità dialettica del suo ego, e costruisce con affreschi puntuali e lirici un mondo letterario un pò fantastico e un pò realistico, un pò sognante e un pò irriverente, proprio come la sua personalità (e la sua poetica). Dagli astratti furori è giunto ad un improcrastinabile e complesso sforzo di verità, in un viaggio coerente e veloce a bordo del treno della produzione poetica del figlio del ferroviere, che si allontanò anche dal comunismo (non sopportava l'adesione al pensiero di Stalin) per creare una sorta di vittorinismo, attento alle istanze di un popolo bisognoso di una cultura che liberasse dalle sofferenze, alleviasse il fardello degli esami che la vita pone davanti all'individuo. Veloce e diretto come un convoglio ferroviario, nei vecchi caselli della Sicilia "ammonticchiata di nespole, e tegole e rumori di torrente", si sente ancora anche l'anima di Elio Vittorini, proteso a trecentosessanta gradi nel combattere quell'ingiustizia e quella fame che rende ogni uomo pericoloso. Il treno del dualismo linguistico componenziale uomo/non uomo si è fermato nel 1966, ma continua a camminare e fare avanti e indietro con le continue ristampe delle sue opere, in un servizio a spola popolato da centinaia di passeggeri amanti di quel valore di gratitudine protetto e cullato da una cultura autorevole e benigna.
L'immagine della ferrovia che è veicolo positivo della voglia di fuga, di conoscenza, di amore e di pulsioni e ha caratterizzato l'esistenza di Elio Vittorini è solo una delle tante istantanee di vita regalate al lettore. "È difficile associare l'idea della morte - e fino a ieri quella della malattia - alla figura di Vittorini. Le immagini della negatività esistenziale, fondamentali per tanta parte della letteratura contemporanea, non erano le sue: Elio era sempre alla ricerca di nuove immagini di vita. E sapeva suscitarle negli altri". Parola di Italo Calvino, l'amico e il collega, che riuscì a sintetizzare la vitalità di uno scrittore integrato nel tessuto letterario dei grandi del tempo, incapace di perire per la sua ostinata voglia di scrivere, di viaggiare, di sognare.
Rocco Della Corte