Una "strada piena di chiari di luna"è percorsa da un uomo, sguardo austero e lineamenti genuini, affezionato alla sua Liguria e alla madre Genova, una "ragazza bruna che apre le sue labbra scure". Dalle note di Cristiano De Andrè alla figura di Eugenio Montale, il fautore italiano del "correlativo oggettivo", significato non esplicitato che ben si addice agli incontri con il male di vivere. Il 12 ottobre 1896 a Corso Dogali nasce un futuro premio Nobel, dalla poetica insidiosa, alla quale non si può chiedere altro che fungere da veicolo per una ricerca interiore esistenzialista destinata a rimanere insoluta.
"Non chiederci la parola"è forse il manifesto più eloquente della speculazione montaliana, che nonostante una produzione relativamente circoscritta ha saputo condensare una fitta rete di messaggi dai significati universalizzati in versi altamente evocativi per quanto allusivi, risultando uno dei maggiori poeti del Novecento per il suo alto tasso di espressività. Dignità e poesia rappresentano allora un binomio indissolubile per il versificatore genovese: la sfiducia verso qualsiasi forma rigida viene dimostrata dalla vastità di sensazioni che attraversano un uomo, alla ricerca di un posto dove sia "dolce sentirsi vivere".
La soluzione simbolica proposta da Montale ai dubbi inerenti la poesia risulta evidente nella raccolta "Ossi di seppia", dove già il titolo richiama sensazioni di morte e degrado in una profondità marina omologa della profondità umana. Il simbolo e l'attesa sono due concetti cardine dell'io, scevro da qualsiasi assunto moraleggiante, che si pone come il portavoce della negatività di una condizione esistenziale destinata ad essere travagliata. Nonostante le tematiche così riflessive, che potrebbero indurre ad un collegamento con le teorie del pessimismo cosmico, Eugenio Montale risulta essere un autore che porta con sè un bagaglio di sensazioni positive: ha trattato delle disfatte umane, si è immerso nella scienza parlando di massificazione e coltivazione della propria infelicità, ma la figura di intellettuale impegnato e attivo hanno scalfito la composizione di un'immagine leopardiana del poeta genovese. Accanito lettore e critico letterario, fu tra i più moderni e precoci "svecchiatori"
della Letteratura Italiana Contemporanea (fa ancora scalpore il "Caso Svevo" dai lui sollevato nel 1925) ascoltando le voci più diverse e timide per elevarle alla dignità, estremo fondante del binomio con la poesia di cui si diceva. La "divina indifferenza" di "Ossi di seppia"è un messaggio antitetico alle prerogative vaticinanti del poeta come risolvitore dei misteri dell'animo, che sono e devono restare imperscrutabili in quanto risultano tali per definizione. "La più vera ragione è di chi tace" - ammonisce Montale - ed è per questo che da Firenze a Milano, uscendo più o meno indenne da un'epoca fascista che coinvolse tutti gli intellettuali (il mancato tesseramento al PNF gli valse la perdita dell'incarico al Gabinetto Viesseux, illustre istituzione culturale), il poeta dimesso e tacito si inserisce nell'ambiente letterario con umiltà e personalità. La vita di Montale è fatta di sentimenti e letteratura: "Solaria", "Le giubbe rosse", e tre grandi amori: Anna degli Uberti (Arletta), Irma Brandeis (Clizia delle "Occasioni"), e Drusilla Tanzi, (Mosca di "Xenia"). Quel lessico talvolta allitterante, aspro, per alcuni poco consono alla leggiadria dei versi, è l'emblema della volontà ben riuscita di dare un senso della realtà pieno, disincantato, ma al contempo lirico. I cocci aguzzi di bottiglia sono un'immagine spinosa ma denotativa del travaglio interiore, suffragato dal suolo crepato di "Meriggiare pallido e assorto" (1916) in un'empatia rara tra l'uomo e il mondo.
Interessante il rapporto altalenante con D'Annunzio, così profondamente diverso dal ripiegamento montaliano eppure assimilabile per le tematiche naturali, ben insinuate nelle petrose righe del poeta del "male di vivere". Nel 1939-1940 vengono pubblicate "Le occasioni", nelle quali il mondo desolato lancia degli input opportunistici tramite figure femminili in cui sembra potersi spostare l'attenzione dall'incedere elegante ma ineluttabile di un tempo difficile da accettare per ciò che è. Il dolore della mente è leggermente attutito, come tramite dei divertissiment pascaliani temporanei, che non possono tuttavia sfuggire alla forbice, ennesimo correlativo oggettivo. Il premio Nobel del 1975 consacra una carriera di spessore, che avviatasi verso il termine, acuisce la riflessione nei confronti delle certezze accumulate, sempre più fragili, tanto da far porre a Montale l'interrogativo degli interrogativi: è possibile ancora la poesia? Il rivo strozzato e la foglia incartocciata sono ricordi lontani. Negli ultimi anni della sua vita lo scrittore delle vacanze a Monterosso ottiene tre lauree honoris causa, viene eletto senatore a vita, ma l'attività pubblica si sdoppia in un'esistenza privata sempre più solitaria e meditativa.
Passati i tempi dell'odio-amore con l'ermetismo, rimane solo quell'ossessiva velleità di trovare un varco da cui fuggire, una possibilità di salvezza dall'assurdo assetto delle cose umane. Il poeta non può più parlare, non sa rispondere alle domande, ma in fondo non è nemmeno compito suo perchè l'assoluto è diviso dall'uomo tramite una muraglia invalicabile. La conclusione montaliana, pertanto, gioca sull'ossimoro permanente tra il positivo e il negativo, e il poeta sapiente, l'intellettuale preparato e dotto, alla fine resterà suo malgrado l'unico custode di una verità terribile. Come comunicarla? Non sarà possibile: quando verrà il momento di disvelare l'essenza dell'inaccettabile destino il tempo non lo consentirà; "ed io me ne andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto".
Rocco Della Corte
"Non chiederci la parola"è forse il manifesto più eloquente della speculazione montaliana, che nonostante una produzione relativamente circoscritta ha saputo condensare una fitta rete di messaggi dai significati universalizzati in versi altamente evocativi per quanto allusivi, risultando uno dei maggiori poeti del Novecento per il suo alto tasso di espressività. Dignità e poesia rappresentano allora un binomio indissolubile per il versificatore genovese: la sfiducia verso qualsiasi forma rigida viene dimostrata dalla vastità di sensazioni che attraversano un uomo, alla ricerca di un posto dove sia "dolce sentirsi vivere".
La soluzione simbolica proposta da Montale ai dubbi inerenti la poesia risulta evidente nella raccolta "Ossi di seppia", dove già il titolo richiama sensazioni di morte e degrado in una profondità marina omologa della profondità umana. Il simbolo e l'attesa sono due concetti cardine dell'io, scevro da qualsiasi assunto moraleggiante, che si pone come il portavoce della negatività di una condizione esistenziale destinata ad essere travagliata. Nonostante le tematiche così riflessive, che potrebbero indurre ad un collegamento con le teorie del pessimismo cosmico, Eugenio Montale risulta essere un autore che porta con sè un bagaglio di sensazioni positive: ha trattato delle disfatte umane, si è immerso nella scienza parlando di massificazione e coltivazione della propria infelicità, ma la figura di intellettuale impegnato e attivo hanno scalfito la composizione di un'immagine leopardiana del poeta genovese. Accanito lettore e critico letterario, fu tra i più moderni e precoci "svecchiatori"
della Letteratura Italiana Contemporanea (fa ancora scalpore il "Caso Svevo" dai lui sollevato nel 1925) ascoltando le voci più diverse e timide per elevarle alla dignità, estremo fondante del binomio con la poesia di cui si diceva. La "divina indifferenza" di "Ossi di seppia"è un messaggio antitetico alle prerogative vaticinanti del poeta come risolvitore dei misteri dell'animo, che sono e devono restare imperscrutabili in quanto risultano tali per definizione. "La più vera ragione è di chi tace" - ammonisce Montale - ed è per questo che da Firenze a Milano, uscendo più o meno indenne da un'epoca fascista che coinvolse tutti gli intellettuali (il mancato tesseramento al PNF gli valse la perdita dell'incarico al Gabinetto Viesseux, illustre istituzione culturale), il poeta dimesso e tacito si inserisce nell'ambiente letterario con umiltà e personalità. La vita di Montale è fatta di sentimenti e letteratura: "Solaria", "Le giubbe rosse", e tre grandi amori: Anna degli Uberti (Arletta), Irma Brandeis (Clizia delle "Occasioni"), e Drusilla Tanzi, (Mosca di "Xenia"). Quel lessico talvolta allitterante, aspro, per alcuni poco consono alla leggiadria dei versi, è l'emblema della volontà ben riuscita di dare un senso della realtà pieno, disincantato, ma al contempo lirico. I cocci aguzzi di bottiglia sono un'immagine spinosa ma denotativa del travaglio interiore, suffragato dal suolo crepato di "Meriggiare pallido e assorto" (1916) in un'empatia rara tra l'uomo e il mondo.
Interessante il rapporto altalenante con D'Annunzio, così profondamente diverso dal ripiegamento montaliano eppure assimilabile per le tematiche naturali, ben insinuate nelle petrose righe del poeta del "male di vivere". Nel 1939-1940 vengono pubblicate "Le occasioni", nelle quali il mondo desolato lancia degli input opportunistici tramite figure femminili in cui sembra potersi spostare l'attenzione dall'incedere elegante ma ineluttabile di un tempo difficile da accettare per ciò che è. Il dolore della mente è leggermente attutito, come tramite dei divertissiment pascaliani temporanei, che non possono tuttavia sfuggire alla forbice, ennesimo correlativo oggettivo. Il premio Nobel del 1975 consacra una carriera di spessore, che avviatasi verso il termine, acuisce la riflessione nei confronti delle certezze accumulate, sempre più fragili, tanto da far porre a Montale l'interrogativo degli interrogativi: è possibile ancora la poesia? Il rivo strozzato e la foglia incartocciata sono ricordi lontani. Negli ultimi anni della sua vita lo scrittore delle vacanze a Monterosso ottiene tre lauree honoris causa, viene eletto senatore a vita, ma l'attività pubblica si sdoppia in un'esistenza privata sempre più solitaria e meditativa.
Passati i tempi dell'odio-amore con l'ermetismo, rimane solo quell'ossessiva velleità di trovare un varco da cui fuggire, una possibilità di salvezza dall'assurdo assetto delle cose umane. Il poeta non può più parlare, non sa rispondere alle domande, ma in fondo non è nemmeno compito suo perchè l'assoluto è diviso dall'uomo tramite una muraglia invalicabile. La conclusione montaliana, pertanto, gioca sull'ossimoro permanente tra il positivo e il negativo, e il poeta sapiente, l'intellettuale preparato e dotto, alla fine resterà suo malgrado l'unico custode di una verità terribile. Come comunicarla? Non sarà possibile: quando verrà il momento di disvelare l'essenza dell'inaccettabile destino il tempo non lo consentirà; "ed io me ne andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto".
Rocco Della Corte