Quando le luci nella sala cinematografica si abbassano e termina la pubblicità, che sembra durare sempre troppo a lungo, si crea un clima di attesa particolare, rispunta quel sentimento di curiosità che non vorrebbe essere tradito dalla visione di un film mediocre.
Se poi ci si trova a vedere un film italiano in un cinema parigino, una domenica pomeriggio piovosa e fredda, la temperie sembrerebbe essere ancora più suggestiva e stimolante. A guardarsi intorno la piccola sala si rivela piena di italiani, nostalgici forse del clima festivo di casa, ma anche di francesi che dividono il loro sguardo tra le immagini e i sottotitoli che fluiscono veloci nella loro lingua natale.
"Mia madre"è un film uscito qualche mese fa nelle nostre sale, eppure a Parigi, come se ci fosse un annullamento spazio-temporale, è ancora di attualità e i manifesti con le facce a noi familiari sono una novità nelle strade della ville lumiere. Le prime immagini del film propongono le immagini di un set: sembra da subito una riflessione del cinema e di chi lo fa sul cinema stesso e sull’impegno che comporta, una piccola mise en abyme che permette al regista di approfondire al grado massimo
l’esperienza esistenziale complicata della protagonista, cercando al tempo stesso di mantenere costante lo sguardo su questioni politiche e sociali sempre attuali. La prima sorpresa per i conoscitori dei precedenti film di Nanni Moretti, digiuni delle recensioni cinematografiche, è quella di non vedere al centro della storia lui, Nanni, l’attore-regista che molto più di tanti ama trasfondere le sue storie personali e i suoi pensieri nel linguaggio del grande schermo, ma bensì Margherita Buy, con la sua capacità di interpretare perfettamente il suo ruolo drammatico, di rappresentare per un periodo limitato un dolore che prima o poi coglierà tutti sconvolgendo le nostre vite, ma lasciando nel profondo le tracce ancora vivide della persona che forse più ci ha segnato, quella madre che continua a darci vita in tanti modi anche dopo la sua scomparsa. Il secondo colpo di scena deriva invece dalla tonalità drammatica del film, alleggerita sistematicamente dal controcanto del personaggio interpretato da Moretti, che sembra essere la gamma chiaroscurale scelta dal regista per comunicare un’esperienza bruciante, per far riflettere il pubblico facendo fruttare positivamente i cento minuti passati davanti allo schermo. Il film, come quasi sempre nel cinema morettiano, è ambientato a Roma. Sullo schermo passano immagini di luoghi conosciuti della vita romana: strade, piazze, locali, non fanno altro che restituire allo spettatore frammenti di un microcosmo familiare, quello che scivola senza sosta nel ritmo quotidiano. Anche le frequenti inquadrature dell’ospedale, nelle scene che si svolgono nei reparti, perdono subito la loro estraneità. Lo spettatore cerca di riconoscere quel luogo e di ricollegarlo a Roma. Ma dove si trova nella capitale un ospedale così nuovo e pulito?
Appena il tempo di porsi una domanda estemporanea che già il movimento incalzante della proiezione favorisce di nuovo l’immersione nel mondo parallelo e intimistico rappresentato dal film, senza pause fino alla fine. Sullo sfondo dell’ultimo giro della pellicola c’è una libreria gremita di libri antichi, il paradiso di ogni letterato. In sottofondo la voce di Margherita che ricorda la madre perduta e un primo piano sui suoi occhi del colore dell’oceano, con il quale ha fine la ripresa. I titoli di coda cominciano a sfilare su uno sfondo nero, il pubblico lentamente si dirige verso l’uscita e rimangono solo sparute coppie di persone. Vicino a te c’è qualcuno che dice che sono solo gli appassionati a rimanere in sala, in cerca di un momento di solitudine o di una rivelazione dell’emozione provata. Scorrono i titoli e a un tratto ti accorgi che le scene dell’ospedale tanto immacolato di cui ti domandavi la localizzazione sono state girate a Velletri, a metà tra l’Ospedale Paolo Colombo e il San Raffaele sulla via dei Laghi. I particolari sembrano essere fatti per essere notati e anche in un cinema di Parigi, guardando un film ambientato a Roma, si possono trovare istantanee di Velletri. Basta solo avere l’occhio per scoprirle.
l’esperienza esistenziale complicata della protagonista, cercando al tempo stesso di mantenere costante lo sguardo su questioni politiche e sociali sempre attuali. La prima sorpresa per i conoscitori dei precedenti film di Nanni Moretti, digiuni delle recensioni cinematografiche, è quella di non vedere al centro della storia lui, Nanni, l’attore-regista che molto più di tanti ama trasfondere le sue storie personali e i suoi pensieri nel linguaggio del grande schermo, ma bensì Margherita Buy, con la sua capacità di interpretare perfettamente il suo ruolo drammatico, di rappresentare per un periodo limitato un dolore che prima o poi coglierà tutti sconvolgendo le nostre vite, ma lasciando nel profondo le tracce ancora vivide della persona che forse più ci ha segnato, quella madre che continua a darci vita in tanti modi anche dopo la sua scomparsa. Il secondo colpo di scena deriva invece dalla tonalità drammatica del film, alleggerita sistematicamente dal controcanto del personaggio interpretato da Moretti, che sembra essere la gamma chiaroscurale scelta dal regista per comunicare un’esperienza bruciante, per far riflettere il pubblico facendo fruttare positivamente i cento minuti passati davanti allo schermo. Il film, come quasi sempre nel cinema morettiano, è ambientato a Roma. Sullo schermo passano immagini di luoghi conosciuti della vita romana: strade, piazze, locali, non fanno altro che restituire allo spettatore frammenti di un microcosmo familiare, quello che scivola senza sosta nel ritmo quotidiano. Anche le frequenti inquadrature dell’ospedale, nelle scene che si svolgono nei reparti, perdono subito la loro estraneità. Lo spettatore cerca di riconoscere quel luogo e di ricollegarlo a Roma. Ma dove si trova nella capitale un ospedale così nuovo e pulito?
Appena il tempo di porsi una domanda estemporanea che già il movimento incalzante della proiezione favorisce di nuovo l’immersione nel mondo parallelo e intimistico rappresentato dal film, senza pause fino alla fine. Sullo sfondo dell’ultimo giro della pellicola c’è una libreria gremita di libri antichi, il paradiso di ogni letterato. In sottofondo la voce di Margherita che ricorda la madre perduta e un primo piano sui suoi occhi del colore dell’oceano, con il quale ha fine la ripresa. I titoli di coda cominciano a sfilare su uno sfondo nero, il pubblico lentamente si dirige verso l’uscita e rimangono solo sparute coppie di persone. Vicino a te c’è qualcuno che dice che sono solo gli appassionati a rimanere in sala, in cerca di un momento di solitudine o di una rivelazione dell’emozione provata. Scorrono i titoli e a un tratto ti accorgi che le scene dell’ospedale tanto immacolato di cui ti domandavi la localizzazione sono state girate a Velletri, a metà tra l’Ospedale Paolo Colombo e il San Raffaele sulla via dei Laghi. I particolari sembrano essere fatti per essere notati e anche in un cinema di Parigi, guardando un film ambientato a Roma, si possono trovare istantanee di Velletri. Basta solo avere l’occhio per scoprirle.
Valentina Leone