Si organizzò un triplice corteo. Quello principale partì dal Palatino con il corpo dell’augusto defunto deposto in una bara collocata sotto un letto di oro e avorio, decorato di porpora e oro; sul letto era sdraiata una immagine in cera di Augusto in abiti trionfali. Era portata da specifici magistrati designati all’uopo.
di Ciro Oliviero Gravier
Gruppo Archeologico Veliterno - Seconda parte
Un secondo corteo con un’immagine di Augusto in oro partì dalla Curia, ed un terzo era un vero e proprio trionfo con Augusto rappresentato alla guida del carro trionfale. Dietro venivano le immagini degli antenati e quelle dei parenti (nipoti e genero) che gli erano premorti. Dietro ancora venivano le immagini di tutti i più celebri romani della storia, da Romolo fino a Pompeo Magno compreso, ma escluso Cesare che era già divinizzato. Dietro ancora c’erano tutti i popoli e le province dell’Impero, rappresentati da figuranti che indossavano l’abito tradizionale di ciascuna nazione. S’intese in tal modo integrare il lutto privato in quello pubblico, coinvolgere l’intera città nei suoi vari quartieri e farvi assistere in modo riconciliato tutta la società romana nel corso della sua lunghissima storia. Tutti i tre cortei si ritrovarono al Foro. Dai vecchi Rostri - quelli stessi dai quali Marco Antonio aveva arringato la folla dinanzi al cadavere martoriato di Cesare - parlò Druso, figlio di Tiberio e, successivamente, dall’alto dell’esedra dei rostri dinanzi al tempio del Divo Giulio parlò Tiberio. La duplice oratio funebris, assoluta novità, sanciva la legittimazione del nuovo potere che si instaurava: il divino Giulio accoglieva Tiberio il vivente figlio adottivo del suo defunto figlio adottivo Augusto. Dai rostri repubblicani, invece, si annunciava, con il figlio di Tiberio, la continuazione della specie. Druso tenne l’elogio dell’uomo Augusto, come l’avrebbe fatto un familiare in vecchio stile repubblicano, mentre Tiberio tessè l’elogio dell’uomo di stato eccezionale di cui si piangeva la perdita e presentando se stesso sin dall’inizio come il suo legittimo successore: “Chi, infatti, più di me, suo figlio e successore, avrebbe diritto e potrebbe mai farne l’elogio? … Sia questo un elogio pubblico, pronunciato da tutti i cittadini in cui, come in un coro, io sarò alla testa per indicare le note principali, mentre voi l’accompagnerete in un canto corale”. Stabilito ciò come un punto fermo indiscutibile, partì per il suo lungo discorso che, secondo Dione Cassio (che ce lo riferisce in greco) non pronunciò, ma lesse (ἀνέγνω) – è più verosimile, invece, che si avvalse, come era costume – di una scaletta scritta che poi andava sviluppando oralmente, secondo i canoni della retorica. Iniziò con l’escludere qualunque paragone possibile tra Augusto e Alessandro il Macedone o Romolo o, perfino, Ercole. Mise in valore il fatto che la legittimità di Augusto, sin dai primordi, era nell’essersi opposto ai “ribelli” col risultato di liberare Roma da molti pericoli e da renderla ricca e potente, sicché i più anziani (alias: i più inclini alla conservazione) vi potevano trovare una gioia ineccepibile e i più giovani (alias: i più inclini alle novità) un insegnamento perfetto della forma e della costituzione dello Stato. “Augusto – continuò -, una volta messo termine alle guerre civili, ha talmente fuso i vincitori con i vinti che ha convertito la sconfitta di questi in una vittoria e reso orgogliosi quelli di aver combattuto con lui. Ma la sua grandezza d’animo si vide veramente quando decise di rimettere nelle vostre mani tutti i poteri. Voi glieli avete lasciati non una, ma due, tre, quattro, cinque volte di seguito, giustamente convinti come eravate – precisò – che un governo “repubblicano” (δημοκρατία) non si addiceva più per gestire un così grande impero, mentre il governo di uno solo (προστασία δὲ ἑνὸς ἀνδρὸς) era il mezzo più efficace per la salvezza e non avete voluto ritornare in apparenza alla libertà, ma in realtà alle discordie. E lui non ne ha mai approfittato. Gli stessi complotti (cose, peraltro, del tutto naturali, dato che gli stessi dei non piacciono ugualmente a tutti) che sono stato orditi contro di lui ne sono una riprova: la virtù di chi comanda con giustizia si mostra, infatti, non nel male che altri vogliono fargli, ma nelle buone opere che egli compie. Il mio discorso intende soltanto rendergli, insieme a voi, una gloria il cui ricordo duri in eterno. Giustamente lo avete chiamato Protettore e Padre della Patria, e da ultimo lo avete proclamato eroe e immortale (καὶ ἥρωα ἀπεδείξατε καὶ ἀθάνατον ἀπεφήνατε). Perciò, senza piangere, restituiamo il suo corpo alla natura, e riveriamo d’ora in poi la sua anima come quella di un dio (τὴν δὲ ψυχὴν ὡς καὶ θεοῦ ἀεὶ ἀγάλλειν)”. Come deciso, i senatori lo portarono a spalla fino al Campo Marzio, seguiti dai cavalieri, dai pretoriani e dalle loro donne e tutto l’immenso popolo in lutto, e lo collocarono insieme al letto prezioso sulla pira a più piani (ustrinum) che era stata preparata. Fu gettato sul corpo un pugno di terra. Gli fu tagliato un dito (os resectum) da collocare poi integro nell’urna insieme alle ceneri. Gli furono aperti gli occhi. Nel frattempo i sacerdoti processionalmente si erano collocati intorno, poi i cavalieri e i soldati delle coorti urbane avevano preso a correre in cerchio gettando sulla legna, in segno di rispetto, tutte le ricompense militari ricevute da lui. Fu gridato più volte il suo nome AUGUSTO, mentre i centurioni designati dal Senato appiccavano il fuoco con le torce capovolte … Fu vista allora un’aquila, uccello di Giove, spiccare il volo dal fuoco, come se portasse in cielo l’anima del defunto. Quando anche le ultime fiammelle del rogo si spensero e non restava più che un mucchio di cenere, i primi dei cavalieri, in tunica, senza cintura e a piedi nudi, per cinque giorni di seguito collaborarono con Livia a raccogliere quanto rimaneva di ossa combuste, purificarle col vino e deporle nell’urna preziosa, la quale fu finalmente collocata nel Mausoleo che Augusto si era fatto costruire fra il Tevere e la via Flaminia, e di cui aveva aperto al pubblico i boschetti e i viali. Augusto vi raggiunse così il nipote amatissimo Marco Claudio Marcello, la madre Azia, la sorella Ottavia, l’amico e genero Marco Vipsanio Agrippa, il “figliastro” Druso Maggiore, e i nipoti Lucio e Gaio Cesare . Non vi furono ammesse, per disposizione di Augusto stesso, né la figlia Giulia Maggiore né la nipote Giulia Minore.