E anche questa era fatta! Augusto provò un senso di profonda soddisfazione e contemporaneamente di vuoto. Era giunto al traguardo, alla fine del suo percorso.
di Ciro Oliviero Gravier
Gruppo Archeologico Veliterno - Seconda e Ultima Parte
Si vide in un lampo distintamente ragazzino nella campagna di Velletri, giovinetto al funerale della dolcissima nonna Giulia, e poi confusamente a Filippi a vendicare il grande zio, ad Azio e ad Alessandria, gli sembrò che gli schizzasse addosso il sangue di Perugia scorso a fiotti per i trecento fatti sgozzare da lui, di nuovo riapparvero e scomparvero Cleopatra e Marco Antonio, e la lunga fila dei tanti morti intorno a lui, i nipoti amatissimi, gli amici sinceri, sentì l’affetto indefettibile di Ottavia e lo schifo di sua figlia Giulia. Un capogiro. Fino a che non ebbe terminato la sua missione con Tiberio, la tensione psicologica aveva dominato le debolezze del corpo e i mille dolori fisici. Ora che era fatta e la tensione si era allentata, tutti i dolori ripresero il sopravvento e gli saltarono addosso come una muta di cani selvatici. E svenne, stramazzando sul pavimento della raeda. Il cocchiere intuì e fermò di botto i cavalli. Lo soccorsero. Rinvenne, poi svenne di nuovo. Rinvenne ancora. Chiese dov’erano. “Alla statio ad Novas”. “Non andate fino a Napoli – bisbigliò. – Portatemi a Nola!” La raeda ripartì, mentre due cavalieri della scorta si allontanarono al galoppo uno per precederlo e avvertire la familia della villa che il padrone, il padrone del mondo, stava arrivando e chissà se sarebbe giunto vivo, e l’altro per informare Livia, che era rimasta a Napoli. A Suessula il cocchiere tirò le redini e frustò opportunamente i cavalli che girarono a sinistra lasciando l’Appia e prendendo la Popilia. Augusto risentiva nelle gambe, nei fianchi, nella schiena, tutti gli scossoni della carrozza sulla strada sconnessa. “Maledetto edile!” Ma, ecco, la strada era ridiventata piana. Si affacciò al finestrino: era il diverticolo che conduceva alla sua villa. Gli venivano incontro premurosi e prudenti decine di servi. Dal grande cortile lo portarono su una lettiga nel cubicolo più grande del peristilio, quello che dava dirimpetto al triclinio. Adagiato sul letto, quando gli occhi si furono abituati alla semioscurità, dagli affreschi ormai antiquati di tralicci e finti mosaici con piccole vedute agresti della villa riconobbe di trovarsi nel luogo esatto dove era morto suo padre. Lui aveva allora quattro anni e del morto conservava solo uno sbiadito e vago ricordo. Ma ora ecco che quello ritornava, come se lo avesse aspettato, testardo, per tutta una vita per un ineludibile appuntamento. Sul far della sera, la porta socchiusa si spalancò di colpo ed entrò Livia, affannata e scarmigliata. Un intenso, tenero e silenzioso abbraccio. Sedato dai medicinali e confortato dalla presenza della sposa amatissima, si addormentò. L’indomani si sentì meglio, molto meglio. Aveva perso la cognizione del tempo. Chiese che giorno era. Gli risposero: “Il 14° dalle Kalende di settembre”, la festa delle Vinalie rustiche. E l’ora? “La sesta”. Si sentiva un gran trambusto all’interno della villa e un forte vociare di molta gente che certamente si era riunita fuori per porgere omaggi e avere notizie. Si informò se non era proprio per lui tutto questo chiasso, che pure gli giungeva attutito dalla distanza e dai muri spessi. Fu contento di sentirsi rispondere quello che aveva ben capito: che, sì, era proprio per lui. Tutt’intorno al letto, nella stanza, c’erano molte persone. Le passò lentamente in rivista con lo sguardo: oltre a Livia, che non l’aveva abbandonato neanche un istante, riconobbe alcuni decurioni di Nola, il suo segretario, il centurione di scorta, il segaligno factotum della villa con la sua prosperosa signora, due giovinette in fiore che dovevano essere le loro figlie. Altri visi si affacciavano dietro alle spalle dei primi, e altri si intravedevano oltre la tenda scostata dell’uscio. Ebbe l’impressione, anzi la certezza di stare al teatro: di essere il protagonista del dramma di cui costoro erano corsi a vedere la conclusione. Si era trattato di una tragedia greca? di una commedia latina? o forse di un’atellana? Niente di tutto ciò, o forse tutto ciò insieme. In effetti, la sua vita era stata un intreccio inestricabile di epiche sofferenze – per sé e per gli altri, di rilassanti risate - per sé e per gli altri, di farsesche buffonerie - per sé e per gli altri. Che cosa era stata dunque? Un gioco: ecco la parola giusta. Un gioco: παίγνιον, come dicevano i Greci alla fine dello spettacolo, quando, toltasi la maschera, il capocomico chiedeva agli spettatori di applaudire. In fondo, questo gioco di illusioni e di alternanze gli era sempre piaciuto e lo aveva accompagnato per tutte le età della sua lunga vita: per questo si era fatto dipingere nella casa del Palatino un’intera sala con affreschi di scene vivaci e di maschere nella cornice di architetture teatrali dalle ambigue prospettive che dilatavano a dismisura lo spazio verso la profondità. Gli ritornò il suo abituale spirito scanzonato e autoironico che lo aveva sempre accompagnato, anzi: contraddistinto. Pensò di divertirsi un po’ e di mettere in scena a beneficio di tutti un piccolo spettacolo, l’ultimo in assoluto. Facendo leva sui gomiti e aiutato da alcuni inservienti, mentre altri gli disponevano dietro la schiena una colonna di cuscini, si mise a sedere nel letto. Fece avvicinare i più vicini, in modo che ci fosse più spazio per quelli che stavano dietro, e fece cenno di entrare a quelli che intravedeva da dietro la porta. Si fece portare uno specchio. E cominciò una ridicola pantomima tutta gesti e smorfie che provocò il riso, sia pur trattenuto, degli astanti. Indicava di non piacersi con la barba lunga e così spettinato com’era, e volle che si chiamasse immediatamente il tonsor per la barba e poi l’ornator che lo pettinasse elegantemente e gli aggiustasse a dovere la sua celebre vertigine a tenaglia sulla fronte, riprodotta su centinaia di statue e milioni di monete. Durante tutta questa operazione, non la smetteva di fare altre smorfie e di dire facezie. Così volle che i peli della barba e i capelli superflui fossero deposti in una cassetta che intendeva portare in dono agli dei inferi perché si uniformassero una buona volta all’igiene dei popoli civili. Richiese lo specchio per ammirare la meraviglia compiuta dai due “artisti – disse – di ultimo pelo”. Ben fatto. Ma le guance no: erano pallide, smunte e cascanti come quelle di un vecchio sdentato. Volle creme e colori. E chiamò a massaggiarlo la più giovane e graziosa delle due figliole del factotum e mentre questa, fiera di tanto e inaspettato onore, gli lisciava il volto con le sue mani fresche ancora quasi da bambina, lui fingeva di avere guizzi e brividi di piacere, e diceva parole e frasi a doppio senso che fecero più volte arrossire la giovinetta, mentre tutti gli altri, comprese le donne e compresa la madre della ragazzina, ridacchiavano chi per vera lascivia chi per finto compiacimento. Era entrata una serva con una tazza di brodo della più grassa e vecchia gallina del pollaio. Lo rifiutò obiettando che gli dei avrebbero sicuramente apprezzato il sacrificio della vecchia gallina, “ma io – disse, e andava palpeggiando la fanciulla – preferisco le pollastrelle”. Accettò solo di gustare alcuni fichi dolcissimi, e di sorseggiare un bicchiere di acqua fresca con un dito di vino. Quando anche questa ultima scenetta fu portata a termine, dopo un ultimo sguardo compiaciuto allo specchio, diede un casto bacio sulla fronte alla ragazzina e si ricompose seduto al centro del letto. Nel silenzio generale, chiese se sembrava loro che avesse interpretato bene la farsa della vita; quindi fece ampi inchini e gesti con le braccia allargate verso tutti gli spettatori, e disse in greco con la voce nasale tipica degli attori: ... εἰ δέ τι ἔχοι καλῶς, τῷ παιγνίῳ δότε κρότον καὶ πάντες ἡμᾶς μετὰ χαρᾶς προπέμψατε. (“ … se poi c’è un che di bello, a questo gioco applaudite, e noi tutti congedateci con allegria”) Il richiesto applauso scoppiò lungo e convinto e fu udito fin fuori, sulla strada. Lo spettacolo era veramente finito: il pubblico poteva defluire. Nel dormiveglia che seguì, si succedettero momenti di riflessione onirica con perdite di coscienza e deliri. Vide dapprima se stesso sul pulpitum di un teatro nel mezzo di uno spettacolo dinanzi ad una cavea stracolma di spettatori. Solo che lui usciva sulla scena non dal fondale, ma dal trigono che lentamente girava. Dalla prima faccia del prisma si distaccava vecchio e deforme, vestito da Priapo ma con la maschera di Cicirro, dalla seconda faccia avanzava invece come un Apollo raggiante con in mano l’arco terribile e sul dorso la faretra con le divine saette. Il prisma girava ancora e dalla terza faccia ne usciva vestito da donna nei panni della Veliterna di Titinio. Poi il trigono bruscamente si fermava come inceppato, per riprendere improvvisamente a girare vorticoso come una trottola traballante. Trascorse del tempo buio. Quindi si ritrovò al centro della scena a fare gli stessi gesti di pocanzi per chiedere il congedo con allegria. Aveva recitato fino in fondo un ibrido copione scritto dalle Parche, che aveva accettato illudendosi di orientarlo a suo piacimento, e ora si congedava μετὰ χαρᾶς. Ci fu altro buio. Poi dal fondo avanzarono quaranta giovani che lo circondavano minacciosi in silenzio e lo portavano via. Si svegliò di soprassalto, levò il capo, spiritato, gridando: “Aiuto! Quaranta … Quaranta giovani … Mi prendono …”. Ricadde nel buio. Poi lentamente ricomparvero i giovani, questa volta sorridenti e allegri, che gli trasmisero un senso di purificata aerea leggerezza. Riconosceva fra loro il volto di tanti che o improvvisamente o senza dolore alcuno se n’erano andati là … illuc, unde negant redire quempiam … da dove non è permesso a nessuno di tornare … e lui aveva sempre detto che quella era “la morte buona”, l’εὐθανασία, che augurava ai suoi e a se stesso … Gli dei lo avevano ascoltato. I quaranta giovani erano scomparsi. Uno solo era restato e giungeva calmo e determinato dal buio: il Genio silenzioso della Morte, dalle ali verdi e i capelli rossi. Lo scalpiccio di persone che entravano nella stanza lo fece svegliare. Venivano da Roma. Chiese notizie della figlia di Druso, che era malata. Ma senza attendere la risposta, si rivolse a Livia che lo abbracciava e baciava. Le disse con l’ultimo filo di voce: “Addio, Livia! Ricordati della nostra unione!”, e spirò.