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Archeologia: "L'eutanasia". Rubrica a cura del Gruppo Archeologico Veliterno

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È l’estate dell’anno 767 dalla fondazione di Roma (il 14 dopo Cristo). Erano trascorsi 58 anni dall’uccisione del grande Cesare ed erano ormai 45 anni da quando guidava da solo un Impero immenso che ci si ostinava a chiamare e a fingere di credere Repubblica.

di Ciro Oliviero Gravier

Gruppo Archeologico Veliterno - Prima Parte
 
Al prossimo equinozio di settembre avrebbe compiuto 77 anni. Augusto si sentiva stanco e presagiva prossima la fine. Si era acutizzata la sua cronica patologia al fegato, aveva lancinanti dolori al ventre e frequenti attacchi di diarrea, improvvisi brividi di freddo accompagnati da febbre alta, e zoppicava sempre più vistosamente: il varismo congenito del ginocchio destro gli aveva causato, con l’età, una dolorosissima meniscopatia. Già dall’altro aprile aveva depositato il suo testamento nelle sacre mani della Vestalis maxima insieme alle disposizioni per il suo funerale. Aveva trascorso gli ultimi mesi a redigere le sue Res gestae da diffondere a futura e imperitura memoria in copie di marmo e bronzo ai quattro angoli dell’Impero: a Roma la matrice originale rivestirà il grandioso Mausoleo nel Campo Marzio. Aveva anche stilato una relazione dettagliata sia sul distaccamento delle truppe provincia per provincia sia sulle riserve monetarie dello Stato. Si erano verificati dei tristi presagi e il sole si era eclissato. Ora, nell’Illirico turbolento era scoppiata un’ennesima rivolta che Tiberio, il successore designato e obbligato, doveva correre a sedare. Si era ad agosto, il mese che una volta si chiamava Sextilis e che il Senato aveva trasformato in Augustus in suo onore. A Roma faceva un caldo insopportabile. Una folla di importuni gli sottomettevano processi su processi. Sbottò: “Non resto più a Roma neanche se mi trattiene l’universo mondo”. Doveva assolutamente staccare la spina. Partì per mare da Astura, di notte, profittando di un vento favorevole. Mentre il battello scivolava veloce lungo la costa, ricomparve il fastidioso mal di pancia con scariche di diarrea. Verso mezzogiorno ancorarono a Capri, “Απραγόπολις” (ossia Fannullopoli), come scherzosamente la chiamava lui in greco. Per l’isola nutriva un particolare affetto sin da quando vi era sbarcato, tornando in Italia nel 29 dopo la definitiva conclusione delle guerre civili con la morte di Cleopatra e di Marco Antonio, e un moribondo leccio secolare si era messo a rifiorire. Aveva allora scambiato con i Napoletani l’isola di Ischia, tenendo Capri per sé, patrimonium principis, affidata in gestione a dei procuratores suoi fidati liberti. Aveva dato all’isola una speciale costituzione, che teneva conto della forte presenza della comunità e della cultura greca che da allora venne a contatto fitto e quotidiano con quella romana di lingua latina, vi aveva raccolto in una specie di museo fossili ed armi preistoriche, considerati ossa e manufatti di giganti, e si era fatto costruire una villa di piacere. Trascorse alcuni giorni facendo il giro del golfo. Una mattina a Pozzuoli gli vennero incontro, vestiti di bianco, coronati di fiori e bruciando incenso, passeggeri e marinai appena sbarcati da una nave proveniente da Alessandria, che lo lodavano per il suo operato e la garantita libertà dei mari. Ciò lo mise di buon umore a tal punto che distribuì ai suoi accompagnatori quaranta monete d’oro per ciascuno esigendo però che giurassero di spenderle solo per comprarsi merci alessandrine. Poi volle che quelli che erano Greci si vestissero da Romani e i Romani da Greci e che gli uni parlassero nella lingua degli altri e viceversa. In quei primi giorni di agosto, si tenevano a Capri, per antichissima tradizione, le gare degli Efebi. Augusto si compiacque di assistervi con animo disteso e divertito per quattro giorni di seguito aggiungendovi per parte sua altre gare scherzose, come il lancio sfrenato di frutta, cibo e vasellame durante i banchetti (cui parteciparono anche Tiberio e l’astrologo Trasillo) e la composizione estemporanea di versi: lui stesso ne compose due, uno dopo l’altro, in greco. In seguito si celebravano a Napoli per le Feriae Augusti i Ludi ginnici quinquennali: lui stesso li aveva istituiti dodici anni prima perché rivaleggiassero con quelli olimpici quadriennali, e quindi, stando sul posto, non poteva mancare, tanto più che quell’anno erano proprio in suo onore. Ma i dolori al ventre, attenuatisi per un po’, ricomparvero. Finalmente partì con Tiberio, che doveva imbarcarsi a Brindisi. Da Napoli si diressero, attraverso la fertile Campania Felix, fino ad Acerra e da lì a Suessula, dove incrociarono l’Appia, la Regina delle Vie consolari. Entrarono nel Sannio. Costeggiarono le Furculae Caudinae di antica e tuttavia ancor cocente memoria, non tanto per la sconfitta subita (dopotutto, si era trattato di un agguato dei nemici, e non di una battaglia vera e propria), quanto per l’ignominioso passaggio sotto il giogo e per il comportamento indegno dei consoli. Ai piedi del Monte Taburno sostarono forse per brevissimo tempo alla Villa di Cocceio, dove già aveva fatto sosta la comitiva di Mecenate, Orazio e Virgilio in missione diplomatica. Quel viaggio Orazio l’aveva immortalato in una sua celebre satira. Lì proprio si era svolta la buffa contesa atellana messa in scena durante la cena tra Sarmento e Messio alias Cicirro. Dio mio, più di mezzo secolo era trascorso da allora, e tutti quei protagonisti erano morti l’uno dopo l’altro ed ora per un momento si stagliavano vividi e sorridenti nella memoria caricando di timidi sorrisi il volto e di lacerante tristezza lo spirito del superstite Augusto. Hinc recta Beneventum … Nel corso del viaggio ebbe finalmente modo di dare a Tiberio, a tu per tu, intervallati da lunghi eloquenti silenzi, quelli che – ormai ne era convinto - sarebbero stati gli ultimi autorevoli consigli per la gestione del potere: un vero e proprio testamento politico orale e definitivo. Consigli invero gliene aveva anche lasciati per iscritto in un documento che egli avrebbe potuto leggere, fra non molto, alla sua prossima morte: ma quelle erano istruzioni diplomatiche che, per il loro carattere di ufficialità, erano necessariamente secche e fredde. Ora, invece, nell’intimità della raeda cigolante, al trotto cadenzato dei cavalli sulle pietre lisce e compatte, tra il frinire delle cicale che facevano tutt’uno col paesaggio sannita tutto vigneti e coltivi, nell’odore del fieno recentemente tagliato che la brezza leggera portava, le parole, le frasi, le riflessioni fluivano lente, calde e affettuose tra accenni di ricordi e previsioni di un futuro che uno solo dei due avrebbe vissuto. Prima di entrare in città, si abbracciarono virilmente in silenzio, tenendosi stretti a lungo. Tiberio proseguì per la sua strada e Augusto diede ordine alla scorta di tornare indietro.

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