Inebetito, spettinato e la barba incolta, le vesti lacere, andava sbattendo la testa contro i muri e gli stipiti delle porte, ripetendo, come un mantra: “Quintili Vare, legiones redde!”.
di Ciro Oliviero Gravier
Gruppo Archeologico Veliterno
Parte Prima
Non riusciva più a dormire e, se talora il sonno lo abbatteva per poco, era scosso da incubi e si svegliava di soprassalto gridando: “Quintili Vare, legiones redde!”. Erano passati solo cinque giorni dalla notizia della vittoria di Roma sui Dalmati e i Pannoni (la guerra era durata quattro lunghi anni) quando giunse l’altra notizia, tanto terribile quanto imprevedibile: tre intere legioni (la XVII, la XVIII e la XIX) e 5000 ausiliari, per un totale di 25.000 uomini erano stati fatti a pezzi dai barbari Germani nel folto di una foresta. Varo stesso, il loro comandante e governatore della provincia, si era suicidato. La sua testa mozzata era stata mandata al capo di una tribù alleata di Roma perché si allineasse ai vincitori, ma questi l’aveva mandata ad Augusto, a Roma. Era la fine di settembre del 9 d.C. Con la conquista della Gallia, Giulio Cesare aveva portato i confini di Roma sul fiume Reno. Al di là si estendevano i territori dei Germani. Augusto intese spostare il confine verso est e ci era riuscito a seguito di una serie di campagne iniziate nel 12 a.C. e che avevano portato il confine dapprima fino al Visurgis (Weser) e poi fino all’Albis (Elba). La prima parte fu opera di Druso Maggiore (figlio di primo letto di Livia, terza moglie di Augusto), della seconda parte si occupò, dopo la morte di Druso nel 9 a.C., prevalentemente il fratello Tiberio. Augusto eresse i territori conquistati dal Reno all’Elba in nuova provincia romana chiamata Germania Magna e vi mandò a governarla una persona che lui stimava e riteneva il più adatto alla bisogna: Publio Quintilio Varo. Costui, benché figlio di uno strenuo oppositore di Augusto, si allineò al nuovo corso, probabilmente combatté ad Azio contro Marcantonio. Augusto cominciò col nominarlo questore in Acaia, gli diede in moglie la sua pronipote Vipsania Marcella, poi gli permise di accedere al consolato insieme a Tiberio, successivamente di essere proconsole nella provincia d’Africa e infine legatus Augusti pro praetore in Siria. In quest’ultima funzione, al fine di tenere sotto controllo i diversi regni vassalli di Roma che avevano la fastidiosa tendenza di sottrarvisi o di opporvisi, doveva usare insieme fermezza militare e abilità diplomatica. Sulla base di queste “competenze”, Augusto lo inviò il 7 d.C. nella provincia di Germania. Diversamente dalla Gallia, dove Cesare aveva trovato territori che alternavano boschi a estese pianure coltivate o messe a pascolo, gruppi umani coesi e agglomerazioni importanti, nella nuova provincia di Germania, quasi interamente occupata da fittissime foreste ed acquitrini, viveva una miriade di piccole o meno piccole tribù (Sigambri, Tencteri, Usipeti, Cauci, Marsi, Ceruschi, Mattiaci, Catti, Marcomanni, Suebi, Bructeri, Ermunduri, Longobardi …) eternamente in guerra fra loro, disseminate in centinaia di villaggi di capanne di 50-100 persone ciascuno, e non c’era nessuna agglomerazione di qualche importanza. Gli unici oppida e castra esistenti erano quelli che avevano fondato gli stessi Romani in funzione militare di controllo e di difesa: Noviomagus Batavorum (Nimega), Castra Vetera (Xanten), Mogontiacum (Magonza), Oppidum Ubiorum (Colonia) lungo il Reno, la base-complesso di Aliso (Haltern am See), Oberaden, Anreppen sulla Lipia (Lippe), Marktbreit sul Moenus (Meno) … Le istruzioni, pertanto, che Augusto diede a Quintilio Varo furono di installare nella nuova provincia pacificamente il sistema romano dopo il ventennio circa di guerra per la conquista, facendo di tutto per mantenere calma la situazione e integrare i nuovi sudditi nella civiltà romana. Purtroppo Quintilio Varo non ne fu capace: ritenne che barbari di così basso livello potessero essere gestiti come quasi schiavi e suscitò intorno a sé e al potere che rappresentava dissensi e opposizioni sempre più forti che sfociarono nell’ostilità di gente che, per quanto barbara fosse, aveva orgoglio e dignità. Il suo demone fu di avere, come suo luogotenente un certo Arminius (Arminio), in cui poneva massima fiducia fino al punto da averne fatto il suo consigliere militare. Questo Arminio era il figlio del capo dei Ceruschi Segimero, che aveva stretto alleanza coi Romani. Durante la campagna di Druso, all’età di 10 anni fu inviato a Roma come ostaggio, come si usava, e lui si integrò perfettamente, seguendo i corsi di una scuola che Augusto aveva istituito specificamente per i giovani ostaggi che arrivavano a Roma dai quattro angoli dell’Impero. Diventò membro dell’ordine equestre, ottenne la cittadinanza romana e fece carriera nell’esercito. Augusto lo gratificò affiancandolo a Varo in partenza per la Germania. Come abbiamo visto, il comportamento di Varo non fu corrispondente a quello che Augusto desiderava. Dal punto di vista militare, però, le operazioni che conduceva – mettendo da parte quelle di spietata repressione – erano del tutto logiche e coerenti: penetrare sempre più in profondità nel territorio e dislocarvi in punti strategici degli accampamenti militari (castra) destinati a diventare oppida, un giorno municipia, poi civitates, urbes … con tutto quello che ciò comportava: pretorio, curia, basilica, foro, templi, teatro, terme, strade di collegamento, porti, mercati … insomma una società civile.