Da ormai una settimana è passato il giorno di San Clemente. A Velletri le attività quotidiane sembrano arrestarsi per un giorno, come se fosse una nuova domenica. Si respira un’aria di festività, i mercatini aprono nella speranza che la pioggia non rovini la complicità degli acquirenti e i passanti curiosi adocchiano le prime decorazioni natalizie in cerca di quel clima che li accompagnerà per almeno un mese.
Il tradizionale giro al centro della città, lo stesso ogni anno, porta a lambire la cattedrale dedicata al santo patrono che oggi si festeggia, ma lo sguardo distratto dalla folla inusuale non arriva a cogliere il tesoro che si nasconde nelle sue profondità.
Nella placida provincia laziale sembra risuonare lo stesso refrein della vicina città eterna, dove le scoperte più eccezionali avvengono in modo assolutamente inaspettato. Di pochi giorni fa, infatti, è la notizia di un ritrovamento di alcuni affreschi nelle vicinanze di Piazza Vittorio Emanuele, a via La Marmora.
Provate a immaginare degli speleologi che si calano in un cunicolo per cambiare una normale tubatura dell’Italgas: sembra una giornata come le altre, tutto sarebbe come sempre se non fosse che all’ultima svolta della galleria un brivido sale lungo la schiena quando la luce della torcia si posa su una parete per niente semplice e banale, adorna dei fregi tipici della romanità e dei suoi vividi colori. Quasi nessuno si immagina che sotto una città ne esistono altre parallele altrettanto vaste, condannate al non essere solo per la loro invisibilità concreta. Tuttavia, come ricordava il pensiero innocente e altrettanto saggio del Piccolo principe, l’essenziale è invisibile agli occhi, e così accade anche presso la cattedrale di S. Clemente a Velletri dove, al di sotto del pavimento premuto in punta di piedi dai fedeli, si nascondono reperti che riportano indietro le lancette del tempo fino all’antica età repubblicana.
È incredibile constatare come alcuni luoghi rimangano legati per secoli alla loro originaria connotazione e vedere come l’idea che per prima li ha informati di sé persista ancora nel tempo. Proprio nell’area in cui sorge oggi la prima basilica minore della Chiesa universale si trovava, infatti, un tempio pagano i cui resti hanno funzionato da fondamenta per le costruzioni, altrettanto sacre, che si sono succedute stratigraficamente. Non c’è stata una distruzione totale dei vecchi culti, ma una sovrapposizione esatta e calcolata del credo evangelico e dei suoi istituti negli stessi spazi, fisici e mentali, di quelli antichi. Del precedente edificio di culto sono stati rinvenuti solamente il basamento in opera quadrata di tufo e l’imposta di alcune colonne che rimandano a un luogo di culto, ma non è stato ancora possibile ancora individuare a chi fosse dedicato. Il ritrovamento nelle zone adiacenti al santuario di alcune favissae, ovvero di depositi ipogei di oggetti votivi, ha fatto pensare che si trattasse di un culto salutare. Alcune di queste piccole offerte, date in pegno nella speranza di una presta guarigione, si trovano conservate presso il Museo delle Navi Romane di Nemi, nel quale un’intera teca è dedicata alla stipe votiva di San Clemente. Spesso sono raffigurate le parti del corpo sofferenti o i volti che, nella malleabile terracotta, conservano la loro espressione dolente. Si trovano anche piccoli piatti e vasetti per libare agli dei o conservare unguenti medicamentosi, tuttavia a colpire maggiormente sono le figurine di animali domestici che affiancano sui ripiani quelle umane, quasi a ribadire il concetto di solidarietà con le altre forme di vita che dovrebbe essere alla base del nostro tessuto quotidiano. Se guardando ai voti ritrovati presso san Clemente può stupire il modo in cui nell’antichità si cercava di riottenere la salute, un salto nelle epoche storiche più vicine testimoniate dalla stessa cattedrale veliterna potrebbe forse smentire questa incredulità.
Sotto l’abside dell’attuale edificio, intitolato già nel V secolo d. C. a Clemente I pontefice e martire che avrebbe predicato a Velletri, si trova infatti una cripta, la parte più antica del complesso, dove nel 1254 vennero traslate le reliquie dei Santi Eleuterio e Ponziano, rispettivamente un Vescovo e un Papa. Questo evento, che all’epoca fece notizia, venne ricordato nell’affresco di Luciano da Velletri presente nella parete di ingresso della basilica. Avvicinandosi si nota che l’intonaco in parte è mancante, non per naturale deperimento ma per la credenza che fosse una polvere miracolosa per i malati. Le usanze cambiano, la natura speranzosa dell’essere umano sembra però irriducibile e inattaccabile.
Provate a immaginare degli speleologi che si calano in un cunicolo per cambiare una normale tubatura dell’Italgas: sembra una giornata come le altre, tutto sarebbe come sempre se non fosse che all’ultima svolta della galleria un brivido sale lungo la schiena quando la luce della torcia si posa su una parete per niente semplice e banale, adorna dei fregi tipici della romanità e dei suoi vividi colori. Quasi nessuno si immagina che sotto una città ne esistono altre parallele altrettanto vaste, condannate al non essere solo per la loro invisibilità concreta. Tuttavia, come ricordava il pensiero innocente e altrettanto saggio del Piccolo principe, l’essenziale è invisibile agli occhi, e così accade anche presso la cattedrale di S. Clemente a Velletri dove, al di sotto del pavimento premuto in punta di piedi dai fedeli, si nascondono reperti che riportano indietro le lancette del tempo fino all’antica età repubblicana.
È incredibile constatare come alcuni luoghi rimangano legati per secoli alla loro originaria connotazione e vedere come l’idea che per prima li ha informati di sé persista ancora nel tempo. Proprio nell’area in cui sorge oggi la prima basilica minore della Chiesa universale si trovava, infatti, un tempio pagano i cui resti hanno funzionato da fondamenta per le costruzioni, altrettanto sacre, che si sono succedute stratigraficamente. Non c’è stata una distruzione totale dei vecchi culti, ma una sovrapposizione esatta e calcolata del credo evangelico e dei suoi istituti negli stessi spazi, fisici e mentali, di quelli antichi. Del precedente edificio di culto sono stati rinvenuti solamente il basamento in opera quadrata di tufo e l’imposta di alcune colonne che rimandano a un luogo di culto, ma non è stato ancora possibile ancora individuare a chi fosse dedicato. Il ritrovamento nelle zone adiacenti al santuario di alcune favissae, ovvero di depositi ipogei di oggetti votivi, ha fatto pensare che si trattasse di un culto salutare. Alcune di queste piccole offerte, date in pegno nella speranza di una presta guarigione, si trovano conservate presso il Museo delle Navi Romane di Nemi, nel quale un’intera teca è dedicata alla stipe votiva di San Clemente. Spesso sono raffigurate le parti del corpo sofferenti o i volti che, nella malleabile terracotta, conservano la loro espressione dolente. Si trovano anche piccoli piatti e vasetti per libare agli dei o conservare unguenti medicamentosi, tuttavia a colpire maggiormente sono le figurine di animali domestici che affiancano sui ripiani quelle umane, quasi a ribadire il concetto di solidarietà con le altre forme di vita che dovrebbe essere alla base del nostro tessuto quotidiano. Se guardando ai voti ritrovati presso san Clemente può stupire il modo in cui nell’antichità si cercava di riottenere la salute, un salto nelle epoche storiche più vicine testimoniate dalla stessa cattedrale veliterna potrebbe forse smentire questa incredulità.
Sotto l’abside dell’attuale edificio, intitolato già nel V secolo d. C. a Clemente I pontefice e martire che avrebbe predicato a Velletri, si trova infatti una cripta, la parte più antica del complesso, dove nel 1254 vennero traslate le reliquie dei Santi Eleuterio e Ponziano, rispettivamente un Vescovo e un Papa. Questo evento, che all’epoca fece notizia, venne ricordato nell’affresco di Luciano da Velletri presente nella parete di ingresso della basilica. Avvicinandosi si nota che l’intonaco in parte è mancante, non per naturale deperimento ma per la credenza che fosse una polvere miracolosa per i malati. Le usanze cambiano, la natura speranzosa dell’essere umano sembra però irriducibile e inattaccabile.
Valentina Leone