Tutto ciò, amplificato e magnificato al massimo, e con le dovute giustificazioni per il lungo ritardo, era tuttavia nient’altro che l’assolvimento di un voto, di un impegno assunto da lui singolo con Marte.
di Ciro Oliviero Gravier
Gruppo Archeologico Veliterno
SECONDA PARTE
E poi non poteva eludersi il fatto, a tutti noto, nonostante il silenzio e la sordina fattivi calare, che quel voto era stato fatto alla battaglia di Filippi, che era stato un successo militare di Marcantonio al quale lui Augusto (allora solo Ottaviano) aveva apportato un contributo rilevante ma, in definitiva, piuttosto secondario. Vincente era stata la tattica di Antonio di avvolgimento, con le legioni e la cavalleria da lui guidate, dell’ala sinistra di Bruto con una magistrale manovra a tenaglia e lo sfondamento inevitabile che ne seguì. Ottaviano aveva solo raggiunto l’accampamento avversario prima che gli sconfitti vi si rifugiassero. Ma un’altra battaglia era stata ben altrimenti decisiva: quella combattuta ad Azio contro Marcantonio. Ecco dunque l’idea: offrire al popolo di Roma, per l’inaugurazione del tempio di Marte, uno spettacolo speciale, una battaglia navale vera e propria! Si rendeva dunque necessario disporre di uno specchio d’acqua intorno al quale accomodare su ampi gradini gli spettatori come in un anfiteatro. Così, mentre avanzavano i lavori in pieno centro per la costruzione del tempio di Marte e del Foro, si cominciò a scavare oltre il Tevere (trans Tiberim, nel quartiere – regio - contraddistinto dal numero XIV), sulla riva destra, un grande bacino e, conseguentemente, costruire un apposito acquedotto che vi apportasse l’acqua. E, venuto il giorno, lo straordinario spettacolo della naumachia (in latino si diceva: naumàchia) ebbe luogo: si scontrarono, per il piacere degli spettatori (lo ricorda Augusto stesso con orgoglio nelle Res Gestae) “trenta navi rostrate triremi o biremi, e, più numerose, di stazza minore”. Vi presero parte “oltre i rematori, circa tremila uomini”. Augusto ci fornisce anche la topografia e le dimensioni del bacino artificiale: “al di là del Tevere, nel luogo in cui ora c'è il bosco dei Cesari, scavato il terreno per un lunghezza di milleottocento piedi e una larghezza di milleduecento”. Il “bosco dei Cesari” lo aveva fatto piantare lui stesso in onore di Caio e Lucio, che lui destinava a succedergli, ma che morirono prematuramente. Tacito precisa che il bosco circondava lo stagno “navale” di Augusto: “nemus quod navali stagno circumposuit Augustus” (Annales, XIV, 15): quindi Augusto fece scavare il bacino e, successivamente, lo fece circondare da un bosco sacro dedicato ai suoi sfortunati eredi. Quanto alle dimensioni (1600 piedi x 1200, ossia 533 metri x 355), appare chiaro che si tratta non di un anfiteatro, bensì di un rettangolo dagli angoli probabilmente smussati onde resistessero meglio alla pressione dell’acqua. La profondità non ci è dato di conoscerla, ma possiamo ragionevolmente supporre che non fosse minore di un metro e mezzo perché biremi e triremi (che avevano intorno a un metro di pescaggio) potessero galleggiare e manovrare. Il fondo aveva certamente una pendenza verso l’uscita di drenaggio. Si è quindi potuto calcolare che per riempire il bacino perché fosse funzionale necessitavano non meno di 250.000 metri cubi d’acqua. E quanto all’acqua, essa vi giungeva apportata da un acquedotto, detto per l’appunto “di Augusto”, lungo 33 km, tutti sotterranei in opus reticulatum rivestito d’intonaco (ad eccezione di 500 metri su arcate), dal lago di Martignano (che allora si chiamava Alsietinus, donde “aqua Alsietina”) presso il lago di Bracciano, attraverso il Gianicolo fino a Trastevere. La sezione del condotto alla fonte misurava un metro di larghezza per un metro e mezzo di altezza; altrove (sotto l’attuale Viale 30 aprile) misurava poco meno di un metro di larghezza ma poco più di due metri di altezza. La portata era mediamente di 180 litri al secondo, il che vuol dire 16.228 metri cubi al giorno. Per riempire l’invaso erano pertanto necessari 15 giorni. L’acqua non era potabile, e per questo Augusto la destinò ad uno scopo diverso: la naumachia, in primo luogo, e poi l’irrigazione delle terre e delle ville e i giardini tutt’intorno, senza escludere i mulini che sfruttavano il salto di quota del Gianicolo. All’arrivo, proprio perché l’acqua non era potabile, non era necessario – come per ogni altro acquedotto – un bacino di decantazione (piscina limaria) e, quindi, l’acqua era immediatamente immessa nel bacino della naumachia. Bisognava però prevedere due accorgimenti: 1) uno scolo modulabile di drenaggio, dalla parte opposta dell’ingresso, in modo da far defluire l’acqua in sovrappiù, 2) un canale alternativo in cui fare scorrere l’acqua quando il bacino doveva essere svuotato completamente per la manutenzione ordinaria o straordinaria, e quest’ultima necessità comportò inevitabilmente la costruzione e il funzionamento di una porta d’acciaio girevole (versatilis). Manovrandola opportunamente, la porta ostruiva l’ingresso del bacino e dirigeva l’acqua proveniente dall’acquedotto verso il canale che scorreva all’esterno che andava a congiungersi al drenaggio e si immetteva nel Tevere. Nello stesso canale si immettevano pure le acque piovane che scendevano dal Gianicolo, opportunamente drenate affinché non si versassero nel bacino, inondandolo. Le navi arrivavano dal Tevere attraverso un canale navigabile, oltrepassato da un ponte mobile in legno (pons naumachiarius) su cui passava la via Campana. Come abbiamo visto, alla prima dell’inaugurazione presero parte trenta fra biremi e triremi più molte altre imbarcazioni minori. Considerato che una bireme misurava circa 25 metri di lunghezza e 3 di larghezza, mentre una trireme misurava intorno ai 40 metri di lunghezza e da 4 a 6 metri di larghezza, e considerato che oltre a loro, c’erano “numerose” altre imbarcazioni di supporto di minore stazza, ovviamente da guerra (actuaria, liburna, caudicaria), non c’era veramente molto spazio per le manovre. Ma ai Romani non interessava tanto assistere alle evoluzioni: quello che volevano vedere erano gli scontri e i combattimenti corpo a corpo. Non dimentichiamo il particolare che richiama Augusto: queste navi erano “rostrate”: quindi lo spazio si creò via via che esse si danneggiavano reciprocamente sfondandosi coi rostri e affondando con tutti i rematori (non meno di 44 per ogni bireme e fino a 170 per ogni trireme). I 3000 armati che si diedero battaglia in scontri sanguinosi di gruppo o in duelli erano vestiti da Greci e da Persiani. La battaglia, infatti, non poteva essere proprio quella di Azio, per non ricordare guerre fratricide. Fu scelta quindi la battaglia di Salamina (anno 480 a.C.), che aveva oltre tutto un valore simbolico perfettamente sovrapponibile a quella di Azio: la battaglia del civile e libero Occidente contro il barbaro e illiberale Oriente. Vi dava visibilità anche l’isola artificiale lasciata nel bacino a una cinquantina di metri dall’argine: rappresentava sia l’isola di Salamina sia lo stretto che chiudeva il mare aperto dal golfo ambracico, ossia il sito – ma solo il sito – di Azio!