Scrivo quest'articolo sull'onda della rabbia, dopo aver ascoltato un'intervista a Michela Andreozzi, attrice e ora anche regista del film "Nove lune e mezza", sul tema dell'utero in affitto.
di Irene Starace
A farmi arrabbiare è stata la superficialità nel parlare di una pratica che sta devastando la vita di molte donne nel mondo e, se fosse legalizzata anche qui, come la regista auspica, avrebbe le stesse conseguenze catastrofiche.
Il film è la storia di due sorelle, una che non ha mai voluto figli e l'altra che non può averne, ma è ossessionata dal desiderio di maternità. Alla fine, la sorella che non vuole figli "presterà" il proprio utero all'altra per permetterle di realizzare il suo desiderio. Si parla già di questo film come di un film "femminista", sulla "sorellanza", sulle "donne di oggi" e così via, e la regista ha detto esplicitamente che vuole rivendicare il diritto ad affittare (o "prestare", come ha detto) il proprio utero come "gesto d'amore". Quando si parla di questo tema, la situazione tipica che viene evocata è proprio questa: una sorella o un'amica che permette all'altra sterile di avere un figlio, in un atto di pura generosità. Ma quello che non si dice (in buona o malafede?) è che questi casi rappresentano meno del 2% del totale. C'è un altro film, "Una famiglia" di Sebastiano Riso, presentato all'ultimo Festival di Venezia, che dà una visione molto diversa: è la storia di una donna sfruttata dal compagno, che la costringe a mettere al mondo un figlio dopo l'altro per poi venderli a carissimo prezzo a coppie sterili. L'"equilibrio" si rompe quando la donna decide di tenerne uno. Abbiamo quindi la descrizione di una realtà sordida, di violenza fisica e psicologica esercitata su di una donna per soddisfare l'avidità e il parassitismo di un uomo e l'egoismo di persone che neanche conosce. Si basa su di una storia vera, che il regista ha conosciuto quando cercava di adottare un bambino. Date le difficoltà dell'adozione, gli era stata prospettata quest'alternativa, che fortunatamente ha rifiutato. Qual è la visione più autentica del problema? Purtroppo la seconda (per chi vuole saperne di più c'è la pagina web stopsurrogacynow.com/, disponibile anche in italiano). E' una realtà orrenda, fatta di ragazze rapite, di contratti capestro che schiavizzano le donne per tutto il tempo della gravidanza e prevedono anche la possibilità dell'aborto, di bambini abbandonati dai "genitori" (o sarebbe meglio dire "clienti"?) perché avevano qualche malformazione o non presentavano le caratteristiche desiderate, di addestramento psicologico delle gestanti perché si dissocino dal bambino che portano in grembo. Per non parlare dei problemi di salute provocati dai trattamenti di inseminazione artificiale. Quale donna sceglierebbe liberamente tutto questo? Anche quelle che difendono la legalizzazione non la chiedono certo per se stesse. La verità è che dietro a questa pratica inumana, che riduce le donne a vacche da riproduzione (c'è chi dice "macchine", ma secondo me non suona abbastanza brutale) e i bambini a merci, c'è un mercato miliardario che rivendica la libertà di agire impunemente, e chi la difende fa il suo gioco, non cerca la libertà delle donne, ma la loro schiavitù. Pertini diceva: "La libertà senza giustizia sociale si riduce alla libertà di morire di fame". O di lasciarsi usare nel mercato del sesso o della riproduzione, aggiungo io. Immaginiamo le conseguenze della legalizzazione in Italia: con la disoccupazione e la precarietà dilaganti, molte donne potrebbero considerarla un'alternativa, magari meno stigmatizzante della prostituzione. Immaginiamo una donna che per dieci, quindici, vent'anni deve sottoporsi una volta all'anno a trattamenti di fecondazione artificiale, partorire un bambino e poi darlo via. Non oso neanche immaginare cosa resterebbe di lei dopo anni di questa vita. E' questo che vogliamo? Rivendicare la legalizzazione dell'utero in affitto mentendo e presentando una realtà edulcorata è un atto di irresponsabilità enorme a cui bisogna opporsi dicendo la verità, per quanto sgradevole sia.