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Archeologia: 'Il trionfo' - Terza parte

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Alla fine di questa interminabile processione, quattro pigmei tiravano una bassa pedana a ruote su cui troneggiava una grande statua di gesso della sconfitta regina sul cui braccio destro si attorcigliava un grande bracciale d’oro a forma di cobra.

di Ciro Gravier  - Terza e ultima parte
Gruppo Archeologico Veliterno


Dal pugno della mano sinistra pendevano tre coloratissimi nastri le cui estremità erano tenute da tre bambini che seguivano la statua: erano i tre figli di Cleopatra e Marco Antonio (i due gemelli Alessandro Elio e Cleopatra Selene, di dieci anni, e Tolomeo Filadelfo, di sei anni). Poi incedevano, lento pede, i due pingui tori bianchi destinati al sacrificio, addobbati di nastri e ghirlande e le lunghe corna ricurve dipinte color dell’oro.
Ed ecco, finalmente, preceduta dai littori con i fasci, la quadriga del carro trionfale. Al posto d’onore, sul cavallo bianco esterno di destra, procedeva l’amato nipote Marcello, mentre sul cavallo interno baio di sinistra cavalcava il figliastro Tiberio. Sul carro, dalle lamine d’oro e d’avorio e tempestato di gemme, incedeva Caio Giulio Cesare Ottaviano il trionfatore, il volto dipinto di minio come quello di Giove Capitolino, con una tunica di porpora decorata d’oro sulla toga bianca, anch’essa decorata d’oro, e ai piedi calzari dorati. Sulla testa portava una corona di alloro e un ramoscello, pure esso di alloro, nella mano destra. Lo scettro d’avorio che impugnava nella sinistra terminava con una superba dorata aquila romana risplendente nel sole. Dietro di lui, un fanciullo matrimus et patrimus (col padre e la madre viventi) gli teneva sul capo una corona d’oro composta di foglie di lauro e gli sussurrava di tanto in tanto all’orecchio la formula magica atta a tenere lontana dal trionfatore l’invidia degli Dei: “Hominem te esse memento” (Ricordati che sei un mortale!). Tutt’intorno al carro giovani danzatori con una corta tunichetta intorno alle reni e giovanissime danzatrici con veli trasparenti eseguivano danze al suono di flauti e di sistri. Dietro al carro il lunghissimo corteo dei soldati romani in abiti militari ma senza armi e con corone di quercia, con le insegne e i labari dei manipoli, delle centurie, delle coorti, delle legioni di appartenenza. Scandivano slogan e lazzi giocosi (i carmina incondita) all’indirizzo del trionfatore: era la militaris licentia autorizzata vuoi per liberazione, sia pur momentanea, dalla rigidissima disciplina del tempo di guerra, vuoi per stornare la gelosia degli Dei. Ultima veniva la folla interminabile della plebe. Ognuna di queste migliaia di persone festanti recava in mano un ramo d’ulivo, o di alloro, o di quercia o di faggio o di palma, sicché pareva che non esseri umani, ma boschi e selve intere procedessero agitate dal vento leggero. I patrizi, tutti con la toga della festa, con le loro mogli e i figli e i gruppi dei loro clientes, avevano assistito alla processione facendo ala al trionfo magnifico lungo l’intero percorso, acclamando ed applaudendo, e piangendo di gioia. Giunto dinanzi al Tempio di Giove, l’imperator, il trionfatore Caio Giulio Cesare Ottaviano scese lentamente dal cocchio, salì sull’altissimo podio e, nel silenzio generale improvvisamente calato, con gesti solenni, al cospetto del Senato e del Popolo Romano, offrì a Giove Ottimo Massimo, Padre degli Uomini e degli Dei, Signore del Cielo, il Potentissimo fra gli Immortali, Protettore della Città, lo scettro e la corona. Quindi si voltò e gridò: “Per Roma!” Altissimo si levò per l’Urbe intera, Caput Mundi, il grido di acclamazione che si propagò, in ondate successive e ripetute, di quartiere in quartiere, prolungandosi per un tempo che sembrò non dovesse terminare mai. A poco a poco si impose sul tumulto e il vocio il suono lungo e acuto delle tubae e il precone chiese il silenzio avvertendo dell’inizio del sacro rito del sacrificio. Nel fuoco che ardeva sull’altare ai piedi del tempio furono versate le libagioni e l’incenso. Furono introdotti i tori. Ottaviano li asperse con il vino e la mola salsa (miele e farina salata) preparata dalle Vestali, e ne rigò il dorso, dalla testa alla coda, con la punta del coltello. Poi, rivolto al Dio, ad alta voce pregò: “Accetta, o Giove, queste offerte, ascolta i voti dei cittadini e tieni lontani i nemici dai confini della patria!”. Il victimarius chiese: “Agone?” (Posso?). La risposta fu: “Hoc age !” (Fallo !). E i due tori stramazzarono a terra sotto i colpi potenti dell’ascia. Ottaviano si inginocchiò e li sgozzò con la lunga affilatissima secespita. Con gesti precisi, i tori furono scorticati in modo che la pelle restasse tutta intera, quindi squartati e messi ad arrostire sul fuoco, mentre il fegato, il cuore e i polmoni furono offerti al Dio. Il suono delle tubae finalmente cessò. Le carni furono spezzettate e consumate dai sacerdoti. Per tutta la città, in ogni quartiere, in ogni piazza, in ogni strada la festa cominciò e durò fino al tramonto tra banchetti, vino, canti, musica e danze. Feste magnifiche, spettacoli teatrali e giochi nel circo seguirono per giorni e giorni. Il giorno 18, Ottaviano inaugurò nel Foro il Tempio del Divo Giulio e la nuova Curia, decorando l’uno e l’altra con trofei egizi. Il figlio prendeva finalmente tutta intera l’eredità politica del grande padre adottivo, iniziando l’era dei Cesari. Dieci giorni dopo consacrò l’Ara della Vittoria, dietro la quale si ergeva maestosa la statua d’oro della dea alata, planante sul globo, con in mano la corona d'alloro per la Città di Roma, statua che i Romani avevano sottratto ai Tarantini duecentoquarantatre anni prima, dopo la vittoria su Pirro. Le vittorie della Repubblica si intrecciavano e trasfondevano in quelle del Principato.

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