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Velletri Archeologica: "L'Egitto di Augusto" a cura del Gruppo Archeologico Veliterno

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È verosimile che Ottaviano ci stesse già pensando, ma è probabile che la finta decisione di rinunciare a tutto il potere che deteneva rimettendolo nelle mani del Senato fu presa, e forse anticipata, in relazione al comportamento oltranzista e indubbiamente odioso che il Senato aveva assunto sul caso del primo governatore dell’Egitto, ma in realtà contro di lui. 

di Ciro Gravier
Gruppo Archeologico Veliterno - Terza parte


Allora tenne nell’anno 27 quel famoso discorso che conosciamo dalla penna di Dione Cassio, alcuni passi del quale (indubbiamente sprezzanti pur nella loro educata formalità) sembrano derivare da quella vicenda: “Depongo tutto il potere, vi restituisco tutto: le armi, le leggi, le province …
Dal momento che la sorte vi ha restituito con l’opera mia la pace vera e la concordia senza lotte, ora accettate la libertà e l’antica forma della Repubblica. Ricevete le armi, le genti soggette a voi e gestite lo stato a modo vostro … Chi potrebbe paragonare a quale beneficio la Gallia sottomessa o la Mesia conquistata o l’Egitto domato …? … Affido lo stato a voi, capacissimi di valore e saggezza”. Fu una vera e propria sfida: fatemi un po’ vedere che cosa siete capaci di fare voi! Il Senato, cui fu messo brutalmente dinanzi agli occhi la sua tronfia superbia e la sua politica parolaia, ne fu spaventato. E diede ad Ottaviano, d’ora in poi Augusto, tutto il potere che egli volle e che, bisogna riconoscere a suo merito, seppe esercitare con grande equilibrio fino alla fine. Fu scelto per l’Egitto un secondo prefetto, nella persona di Caio Elio Gallo, della cui biografia precedente non sappiamo nulla, ma il cui nome ci autorizza a supporre che avesse qualche parentela sia pur lontana col primo prefetto. A costui Augusto, che non dimenticava di essere figlio e nipote e forse anche pronipote di banchieri, assegnò un compito speciale: partire dalla base strategica dell’Egitto per raggiungere l’Arabia Felice (l’attuale Yemen). Nell’immaginario dei Romani, quella regione era e restò a lungo un paese favoloso, dove viveva l’araba fenice e da dove provenivano l’incenso e infinite altre spezie e pietre preziose, avorio e seta. Plinio il Vecchio scrive: “Al di là del delta, a Pelusio, si trova, bagnata dal Mar Rosso, l’Arabia felice, abbondante di profumi e di ricchezze”. Lo scopo della spedizione, non necessariamente militare ma comunque da condurre con la protezione dell’esercito, era di mettere le mani sulle vie di comunicazione con il Golfo Persico. L’idea di Augusto era da un lato conservare l’Egitto come una miniera inesauribile di grano, dall’altro utilizzarlo come trampolino di lancio o come “plaque tournante” per il commercio di derrate esotiche provenienti da regioni sempre più ad est. Se quelle merci fossero state svincolate dal monopolio dei Sabei, sarebbero costate molto di meno e, una volta giunte in Egitto e da lì trasportate a Roma avrebbero fruttato una montagna di soldi. Forse nelle sue conversazioni pur pacate, dovette suggestionare talmente Elio Gallo che questi si immaginò che Augusto desiderava al più presto a Roma una montagna di queste derrate e, invece di arrivare nella mitica Arabia Felice via terra (cosa niente affatto difficile, seguendo le piste dei Nabatei di Petra allora amici dei Romani – piste la cui esistenza era nota sin dai tempi di Pompeo), allestì una enorme flotta di 80 tra biremi, triremi e naves longae, più altre 130 navi da trasporto su cui imbarcò non meno di 10.000 uomini e, partendo dal porto egiziano di Cleopatris (attuale Suez) puntò su Leukè Kome sulla sponda opposta del Mar Rosso, dopo avere subito molti naufragi a causa dei banchi corallini contro i quali le navi andavano a infrangersi (anno 25). Trascorso lì tutto l’inverno, in primavera finalmente Elio Gallo si decise a puntare verso sud marciando via terra, avendo come guida un certo Silleo, che gli era stato fornito dal re di Petra Obodas. Silleo però fece il doppio gioco e dirottò la spedizione lontano dalle piste sicure, e insomma finalmente si entrò in Arabia Felice, nel Regno di Saba, e si pose l’assedio alla città di Mariba, immediatamente tolto, dopo soli sei giorni, per l’assoluta mancanza di acqua. Il ritorno ad Alessandria (anno 24) durò solo sessanta giorni contro i sei mesi sprecati nell’andata. Manifestamente era stato un totale insuccesso: l’unico vantaggio immediato era stato l’aver stabilito una serie di guarnigioni romane lungo la costa araba sul Mar Rosso ed avere acquisito notizie geografiche certe di quella zona del mondo (notizie che Elio Gallo ebbe la buona idea di passare al suo amico Strabone). In un secondo momento, i Sabei, pur di non vedersi invadere di nuovo, aprirono negoziati con Augusto accettando una forma implicita di protettorato da parte di Roma. Come conseguenza, il Mar Rosso divenne un secondo Mediterraneo romano sul quale presero a transitare merci a non finire. Plinio il Vecchio ci informa che alla sua epoca (siamo verso la fine della dinastia giulio-claudia) i ricchi romani spendevano cento milioni di sesterzi all’anno per acquistare tessuti, spezie di ogni genere (pepe, zenzero, sesamo, chiodi di garofano, noce moscata), legno pregiato, perle, avorio, bitume, laudano, e perfino pappagalli e ballerine esotiche di un oriente sempre più estremo. Si è calcolato che un’intera flotta di non meno di 120 navi onerarie, protette da agili biremi militari contro i pirati, solcava continuamente il Mar Rosso nei due sensi. Partivano dall’Egitto (territorio romano) cariche di “spezie occidentali” (vino, olio, aglio, cipolle, sedano, finocchio, alloro, menta, prezzemolo, timo, rosmarino …), le consegnavano oltre confine nei porti arabi e orientali agli agenti commerciali che le attendevano per smistarle all’interno, e ritornavano con le “spezie orientali” voracemente risucchiate dall’Italia verso la capitale.

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