Aveva lavorato in banca, ma quando lo chiamai a casa per la prima volta, nel 2002, non lo sapevo ed ero talmente emozionato da farfugliargli, appena disse “Pronto?” con la sua voce magnetica, “Buongiorno, Maestro…”: lui rispose prontamente “No, ragioniere!”.
di Luca Leoni
VELLETRI - Ti spalancava le porte, appena percepiva l’intonazione velletrana, perché probabilmente vi percepiva il liquido amniotico materno, anche se le sue radici affondavano nel borgo pontino di Maenza. Si sentiva a casa, chiamato a tavola come si faceva ai suoi tempi, quando papà era un falegname con abilità di ebanista, collega del padre di uno dei più grandi direttori della fotografia del cinema italiano (e non solo), Marcello Gatti.
Appena fu comunicata la scomparsa, nel marzo 2006, del ‘ragionier Giovampietro’, Guido Di Vito tirò fuori dal suo archivio una foto che ritraeva i giovanissimi fratelli Gatti e Renzo, loro coetaneo, a Velletri, presso la fontana seicentesca di piazza Cairoli e con un Palazzo Ginnetti ancora in piedi alle loro spalle. Gli chiesi di scrivere un pezzo ‘in memoriam’ del grande attore e regista e lui mi disse: “Ho tante foto di Giovampietro alla consegna dell’Albo d’oro della città di Velletri l’anno scorso, ma era un vecchio spento. Mettiamo questa, che lo ritrae poco più che bambino!” Il mio pezzo uscì su ‘Il Cittadino’ e ne inviai una copia cartacea sia alla figlia dell’attore che a Marcello Gatti. Mi risposero entrambi: la prima, da Verona, con una bellissima lettera, Gatti mi chiamò e mi disse “Grazie, caro Luca! Ne ho fatto una fotocopia e l’ho consegnata alla vedova di mio fratello” Fu un ritorno a casa sull’onda delle emozioni, che mi fece dimenticare quell’orgoglio che provavamo tutti, quando i titoli di ‘Sandokan’ diretto da Sergio Sollima riportavano ‘Renzo Giovampietro’, anni e anni di radio e teatro, nel suo costante impegno civile che aveva riportato alla ribalta autori come Leopardi e Alfieri. E ricordai la sua interpretazione, a memoria, di alcuni versi de ‘La Pretissione’ (1884) di Jachini: recitò la strofa in cui ci si lamentava dell’inadeguatezza di certi balconi troppo bassi, dove gli stendardi più ingombranti delle confraternite andavano a impigliarsi: "So' troppo strette, figli, chesse strade/, pe' portàne 'ssi cosi co' lo viento!"“Vieni a trovarmi: ti porto a mangiare del pesce in un posto delizioso”. Mi salutò così, come uno di famiglia. E non sapevo che sarebbe stata l’ultima volta. Con quel ‘ragioniere’ simpatico e brillante, dalla battuta meditata e senza peli sulla lingua, il tempo perdeva tutte le sue coordinate.