Il 29 aprile 1979 veniva ritrovato il corpo di Lucio Mastronardi, uno scrittore diverso da ogni convenzione. Una penna difficile, da molti apprezzata e da tanti incompresa, che ha saputo tuttavia descrivere con cinismo, realismo e amarezza un periodo storico innegabilmente complesso dal punto di vista sociologico.
di Rocco Della Corte
Benessere, produzione industriale, profitto: queste sono solo alcune delle parole chiave del boom economico degli anni Sessanta che non sono proprio andate giù a Lucio Mastronardi, l'autore di Vigevano che dalla patria delle calzature ha lanciato un messaggio disperato, disincantato e allo stesso tempo accorato riguardo quello che stava accadendo nella società italiana post-bellica. In un clima di diffuso ottimismo l'alienazione di un autore assurge a simbolo di un unicum letterario, tutto ripiegato sull'interiorità, completamente sbalzata fuori dalla gamma di opzioni contemplate dalla società ormai proiettata verso un'industrializzazione a tratti delirante e capace di assorbire senza pietà e distinzione uomini e sentimenti.
Così le pagine strazianti, straniate e terribilmente realistiche del maestro lombardo sono passate alla storia per la loro incredibile saggezza, frutto di una visione ad ampio raggio, lungimirante e suo malgrado capace di far rabbrividire per la carica profetica condensata nei romanzi della trilogia vigevanese. Sotto il cielo del Ticino prendono forma figure eroiche, intensamente umane e per forza di cose sconfitte, come quella del maestro Mombelli, intento a portare a termine la sua missione, secondo la quale l'insegnamento è una vocazione che prima svogliatamente tradisce per asservirsi alle logiche della società del danaro, e poi riprende tornando tra i confusionari e miseri banchi di scuola ad insegnare la vita nell'autentico spirito dell'antico magister. Di carattere litigioso e scostante, Lucio Mastronardi ebbe contatti con gli ambienti letterari del Novecento pur non avendo mai avuto - come ricorda chi lo ha conosciuto - quella cordialità diplomatica che si più si addice ad un personaggio pubblico. Scontroso, spigoloso, indisciplinato, ritrova entusiasmo e serenità solo nella narrativa mentre dentro di sé il naufragio lo pervade, il malessere esistenziale si fa spleen incontrollabile e insopportabile. Il maestro di Vigevano, ritratto spietato e cinematografico della cittadina del pavese, viene definito da Italo Calvino come una visione nera ma contemporaneamente poetica della realtà locale, microcosmo specchio dell'abbagliante epopea industriale italiana. I periodi di internamento hanno segnato ancor di più la vita di un autore incompreso, che dopo aver insultato un ferroviere passa due anni in istituto, dove può riflettere - protetto dall'amica follia - sulla potenza derivata dalle legittime velleità letteraria, sul suo bisogno di narrare, di dire a tutti che non è quella intrapresa la strada verso la felicità. Una letteratura impegnata e priva di orpelli esornativi, coerentemente con un animo malinconico e rabbioso. Mastronardi conosce anche le vie del carcere per una lite furibonda con un direttore scolastico. Mal sopportava, e lo si evince tra le righe dei suoi romanzi, le figure burocratizzate e stereotipate funzionali al potere, completamente incapaci di valorizzare quello spirito puro e pensante che è dentro ogni uomo e che la società del "progresso industriale" tendeva ad eliminare, per creare fabbriche ovunque. La difesa più appassionata risulta - non poteva essere altrimenti - quella della scuola, istituzione da difendere con le unghie e con i denti, completamente amata e allo stesso tempo odiata dallo scrittore della città delle calzature, in un ossimorico rapporto che oppone la possibilità, sana, di trasmettere una cultura abbinata a spirito critico e l'ennesimo caso, traviato, di produzione anonima che la realtà ne fa derivare, quella di laureati ignoranti assimilabili a materiali da mettere sul mercato. Nello strapotere del capitalismo e dell'avidità di denaro, Mastronardi lancia un grido di dolore tramite le parole del calzolaio Mario Sala - pubblicate la prima volta sul «Menabò» - intimamente sentite dallo stesso autore che scrive davvero le sue pulsioni private e le sue sensazioni spontanee ascrivendole, nella finzione letteraria, a Micca. I dialoghi del Calzolaio di Vigevano, permeati di uno sperimentalismo linguistico dai toni dissacranti, sono freddi, come raffreddati sono i rapporti umani in un contesto dominato dalla voglia di arricchirsi che differenzia il protagonista dalla sua umanistica speranza nel prossimo, purtroppo ormai ridotta ai minimi termini. Il riscatto nei personaggi di Mastronardi è sempre rigorosamente parziale, perché come personaggi della tragedia classica sono funestati da una serie di eventi negativi (il maestro Mombelli perde la moglie, vede crollare il mito del figlio, scopre un tradimento) e si rialzano con delle vittorie di Pirro, rappresentate dalla fiducia utopistica nelle proprie certezze, anch'esse continuamente in discussione viste le esigenze dettate dal panorama sociale generale. Mentre scrive A casa tua ridono (1971), il cuore di Mastronardi è invece, probabilmente, già in lacrime: lo scrittore non sopporta più l'arrivismo incombente, la voracità dilagante di una società che pensa esclusivamente al guadagno anche nei momenti più spensierati. In pratica si auto-condanna ad un atto estremo di coerenza verso l'insostenibilità della condizione esistenziale descritta, pagina dopo pagina, nella Trilogia. Resta misteriosamente inedito l'ultimo manoscritto, di un altro romanzo, che Mastronardi citava in una lettera indirizzata all'Editore Rizzoli poco prima della scomparsa. La sua passeggiata sul greto del Ticino, il 24 aprile 1979, diventa una sfida alla sua intera esistenza, un atto di accusa e di non resa verso un mondo divenuto troppo duro e inaccettabile. Alcuni testimoni riferiscono di aver visto il maestro di Vigevano passeggiare assorto, meditativo, vicino al fiume. Verrà ritrovato il suo corpo esanime il 29 aprile, riaffiorato dalle acque, in un epilogo tragico e amaro ma che porta ancora oggi l'eco del suo grido disperato ed eroico di sofferenza, sancito da una vita che "si trascina di ventisette in ventisette".