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Un diaframma per indagare il reale: intervista a Laura Bellucci, autrice de "Lo specchio"

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La giovane scrittrice veliterna Laura Bellucci ha esordito con la raccolta di racconti intitolata Lo specchio, pubblicata dalla casa editrice Lfa publisher. 

Intervista a cura di Valentina Leone


VELLETRI - Un’opera prima, Lo specchio, composta da venti racconti brevi, che colpisce per l’atmosfera sospesa tra normalità e surrealtà suscitata dalla giovane scrittrice veliterna Laura Bellucci, classe ’94, diplomatasi presso il liceo socio-psico-pedagogico “Mancinelli e Falconi” di Velletri e iscritta al corso di laurea in Lingue nella società dell’informazione dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”.
L’autrice ha raccontato a Velletri Life le premesse della sua raccolta di esordio, dalle iniziali prove di scrittura ancorate nell’infanzia alla vicinanza di persone fondamentali, oltrepassando poi la superficie de Lo Specchio per entrare nella sua struttura organizzativa e illuminare i punti di snodo, senza celare la maturità di una poetica interessata all’umano che anticipa per Laura Bellucci il tempo della scrittura, quasi fosse una vocazione etica alla letteratura, e costituisce il migliore invito per la lettura.


La genesi de Lo specchio è stata caratterizzata da una ispirazione improvvisa o si pone in continuità con una attività scrittoria di lunga durata? 

Potrei rispondere che in realtà valgono entrambe le alternative: mi sono dedicata alla scrittura sin da bambina e crescendo ho coltivato questa inclinazione orientata prevalentemente nell’ambito di scritti diaristici. Lo specchio ha rappresentato il primo tentativo di legittimazione e riconoscimento di questa attività di scrittura improntata all’immaginazione, all’apertura verso l’esterno, anziché alla confidenzialità e al privato. 

C’è stata almeno una figura, anche nel corso della formazione scolastica, che è stata determinante per incoraggiare e stimolare la creazione letteraria? 

Ricordo con molto affetto e riconoscenza le mie insegnanti di italiano della scuola elementare, Semira Pomponi – che per me rimarrà sempre la “maestra Agnese” –, e della scuola media, Stefania Compagnucci. La maestra Agnese mi ha trasmesso l’amore e prima ancora il rispetto per la lingua italiana, pullulante di sfaccettature e declinazioni di significato nella sua molteplicità di espressioni possibili. Se il linguaggio è lo strumento attraverso il quale ci rapportiamo all’esterno, assimilando la realtà nella quale siamo immersi affinché essa risulti accessibile alla nostra comprensione, la letteratura diventa un metodo di indagine e di interpretazione del mondo. La professoressa Compagnucci mi ha insegnato che la letteratura anticipa la vita nel porre nuove prospettive attraverso le quali osservare la realtà. Al liceo ho imparato dalla professoressa Altavilla, che ho avuto come insegnante di letteratura latina per un anno, quanto la lingua possa essere viva e pulsante. La professoressa aveva l’abitudine di analizzare l’etimologia di alcune parole, mostrandone la provenienza dal mondo latino che era spesso curiosa e di natura analogica. Una delle cose per me più straordinarie è come uomini morti da secoli possano sopravvivere anche attraverso la lingua, ad esempio per mezzo di termini come “luculliano”, da Lucio Licinio Lucullo. Mio fratello Paolo è stato un attento lettore al quale ho sottoposto ogni mio racconto e che mi ha sempre incoraggiata nella scrittura. La persona che per me è stata determinante in questo percorso, e che pertanto mi sento di definire “compagno”, è Antonio, col quale ho condiviso il cammino all’interno di questo itinerario letterario e non solo. Io credo che la produzione creativa nasca dal confronto, sia nell’accezione di intertestualità e quindi nella fruizione delle opere artistiche, anche realizzando una commistione fra le diverse categorie, sia nel senso di misurarsi attraverso il dialogo. Le nostre conversazioni hanno per me rappresentato uno stimolo fondamentale, così come la sua presenza e la sua attenta e sempre sincera analisi dei miei racconti. 


Riguardo al titolo della raccolta qual è il significato e in quale modo si rapporta ai venti racconti in qualità di tratto unificante? 

Lo specchio è una superficie riflettente che rimanda la nostra immagine. Si tratta, tuttavia, di una rappresentazione mediata dalla nostra soggettività. Uno dei giochi che facevo da bambina consisteva nel prendere uno specchio tascabile e rivolgerlo verso l’alto, per poi gironzolare mentre osservavo le immagini riflesse. In questo modo, a volte mi sembrava di camminare sul soffitto, altre di mantenermi in bilico sulle fronde degli alberi. Ogni passo era una scoperta, esploravo con occhi nuovi ogni angolo della casa in cui abitavo ma che si era fatta misteriosa, estranea. Allo stesso modo, ne “Lo specchio” si parla di racconti del quotidiano, ma queste esperienze di tutti i giorni vengono filtrate da una percezione inconsueta che le rende quasi irriconoscibili e sconosciute per quanto appaiono diverse. 

Il primo racconto che hai scritto si intitola L’evoluzione della specie, ma all’interno della raccolta a ricoprire la posizione incipitaria è (13,72 ± 0,12) ×109. Qual è stato lo scarto tra la cronologia di stesura dei racconti e la disposizione strutturale successiva? 

Nella scelta della disposizione dei racconti ho totalmente ignorato la cronologia della stesura, tanto che fatico a ricordare l’intero ordine di scrittura. La nascita de Lo specchio è avvenuta in maniera naturale, in un certo senso inconsapevole. Quando ho iniziato a scrivere non avevo idea, o intenzione, di dedicarmi a una raccolta di racconti. Semplicemente, ho dato vita a pensieri ed emozioni attraverso i personaggi che popolavano la mia testa e che ora guardo riflessi ne Lo specchio. La disposizione definitiva è stata il frutto di una scelta più conscia e ragionata, dettata anche dall’esigenza di alternare i racconti più intensi e quelli che lo sono meno. 

Tra i venti brevi racconti quali sceglieresti per costruire un itinerario rappresentativo del volume intero? 

Il racconto che apre Lo specchioè (13,72 ± 0,12) ×109, che funge da monito dell’intera raccolta. Esso rappresenta la mia risposta alla domanda «Perché scrivi?» attraverso le angosce di un disoccupato che si rivolge a un ufficio di collocamento, ma prima di tutto per mezzo delle inquietudini di un uomo che avverte di peso la propria finitezza, paragonata alla formula (13,72 ± 0,12) ×109 che costituisce un’approssimazione dell’età dell’universo: «Non riesco a tollerare tutto questo: avere un solo ombelico, cinque dita per mano, una media di centomila capelli. Dover guardare con soli due occhi e in una sola direzione. […] Dover essere in un unico posto per volta, dover vivere una sola vita. […] Non riesco ad accettare che ogni secondo trascorso mi avvicini al momento in cui esalerò il mio ultimo respiro. […] Non riesco ad accettare di dover morire una sola volta, in un solo modo». Il protagonista del racconto è un uomo senza nome che rappresenta tutti coloro i quali sono avidi di vita, bramosi di sperimentare tutto, e più di tutto l’impossibile. Accade allora La rivolta da parte dei personaggi letterari nei confronti della scrittrice, in un parallelismo tra Dio e uomo, libero arbitrio e predestinazione. Succede che Il giudizio universale diventi un processo a Dio, laddove il rovesciamento dei ruoli prevede che siano gli uomini a difenderlo, accusarlo e giudicarlo come in un qualsiasi tribunale nel corso della più blanda delle udienze. Capita di incappare negli inganni del Falsario, in un gioco di specchi tra vero e falso, realtà, immaginazione e finzione letteraria. Il tema del lavoro torna nel racconto posto a conclusione della raccolta, intitolato Il contratto, che promuove una riflessione sul tempo attraverso la vicenda del protagonista in cerca di un impiego a cui nel corso di un colloquio viene sottoposto un documento dalle clausole bizzarre. 

Esiste un modello letterario e narrativo che è stato più presente nel momento della composizione? 

L’intertestualità è una componente determinante della letteratura e nello specifico della mia ispirazione. Per quanto riguarda i modelli letterari assunti al momento della stesura, citerei Ágota Kristóf, Franz Kafka e Boris Vian, che hanno in comune il fatto di essersi dedicati alla composizione di racconti brevi. Della Kristóf ho letto molto, è una scrittrice di cui sono profondamente innamorata e che esercita su di me tutto il magnetismo del suo mondo crudo e spietato, evocato dal dramma della sua scrittura. Di Kafka ho letto meno, ma vissuto con altrettanta intensità ed incassato i suoi colpi, perché come lui stesso scrisse in una lettera del 1904 a Oskar Pollak: «Se il libro che leggiamo non ci sveglia con un pugno sul cranio, a che serve leggerlo?». Infine, Boris Vian per me ha rappresentato l’accesso ad un ulteriore livello di consapevolezza ed elaborazione della realtà. 

Dopo la prima raccolta esordiale hai in cantiere dei progetti letterari per il futuro? 

La scrittura è una necessità che per me nasce dal tentativo al tempo stesso di evasione e partecipazione alla vita. Si tratta di un’evasione nel campo del possibile e di una partecipazione intesa come incarnazione nella concretezza e finitezza della singola esistenza, compartecipante al tutto. In fondo, la vita è contraddizione nel suo essere fondata su principi contrari la cui lotta si mantiene in equilibrio laddove l’uno non sovrasta mai l’altro in maniera definitiva. Potendo noi porci, in veste della nostra fattezza di uomini, come unici interpreti della realtà in base alla percezione che appartiene alla nostra specie, ciò si evince in maniera ovvia nel carattere frammentario, che per comodità definiamo dualismo, della nostra natura. Il mio prossimo progetto letterario è basato su questa consapevolezza, sul concetto di divenire come guerra perenne fra i contrari. Si tratta di racconti in cui questi principi si concretizzano in personaggi del nostro patrimonio storico e culturale che rappresentano gli opposti per antonomasia, o che in tali vengono trasformati, come Abele e Caino o Ulisse e Polifemo.

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