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Una passeggiata incredibile tra natura, archeologia, paesaggio e religione: questo sarà il Parco Archeologico di Velletri

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Una passeggiata sull'Appia Antica nel territorio di Velletri da Soleluna a Le Castella: emozioni, scorci paesaggistici, piante e reperti archeologici.

di Valentina Leone


VELLETRI - A due mesi abbondanti dalla consegna da parte dei volontari del Gav (Gruppo archeologico veliterno) del progetto di riqualificazione e di valorizzazione del tratto dell’Appia Antica che insiste sul territorio di Velletri, finalizzato alla costituzione di un Parco archeologico, la sua attuazione in tempi brevi sembra essere stata procrastinata a una data indefinita.

Tuttavia, in attesa dell’effettivo stanziamento dei finanziamenti da parte del Ministero, come si presenta attualmente nei suoi 9313 metri il percorso veliterno dell’Appia Antica e in particolare l’ultimo segmento dalla località Soleluna fino a Le Castella, punto confinante con il territorio comunale di Cisterna di Latina? Percorrere a piedi questo itinerario sembra già in parte restituire alla regina viarium il suo spirito originario, persosi nel momento in cui a seriali colate di asfalto hanno sottratto all’antico basolato il marchio identitario della romanità. L’ampio spazio antistante alla scuola elementare Sole Luna, dove l’Appia Antica interseca via dei Cinque Archi, al tempo la via Mactorina, era fin dall’età arcaica un luogo di fondamentale importanza, per lo strategico collocamento della mansio ad sponsas, segnalata dai resti di ambienti termali, e per la presenza di un santuario dedicato ad Apollo e Diana, rispettivamente la divinità solare e lunare che hanno ispirato il toponimo della contrada.
In questo luogo sacro, dedicato a numi opposti e complementari, usavano recarsi le promesse spose il giorno prima del matrimonio singolarmente o il 13 agosto con una cerimonia collettiva per propiziarsi la dea vergine, in auspicio di un matrimonio fertile. Sottili figure di ragazze, probabilmente nella soglia tra l’età adolescenziale e quella adulta, si recavano qui vestite di una candida tunica recta, priva di orli e di maniche, aderente alla vita grazie al cingulum herculeum, una cintura di lana dal doppio nodo, e coperte dalla palla, il mantello. Il traffico automobilistico ha oggi sostituito le placide processioni ricolme di una avida speranza di futuro e lo sfolgorare dei mantelli color zafferano, del velo sfumato di arancione, il flammeum. Pochi, emergenti proprio sotto la scuola, sono i resti del santuario, ancora visibile al tempo in cui Carlo Labruzzi (1748-1817) in questo punto fermava nei suoi acquerelli delle rovine erroneamente identificate con quelle di un “mausoleo”. Proseguendo oltre, dopo l’incrocio con via Tempio di Diana, tra pietre levigate che spuntano solitarie a testimonianza del tracciato voluto dal console Appio Claudio nel 312 a. C. si attraversa il Fosso della Colombara su un traballante ponte in legno, pallido sostituto del ponte romano in muratura le cui rimanenze sono rimaste in fondo al fosso, stipato di rifiuti. L’antica strada romana non curvava come l’attuale verso destra, ma proseguiva diritta, perciò in questo punto i vitigni sostituiscono il corso viario. Dalla prospettiva dal basso, occupata dai filari regolari, che si gode da questi campi si percepisce un altro aspetto dell’Appia Antica, corrente in realtà a una altezza maggiore dell’attuale livello di calpestio.
I grandi blocchi squadrati che costeggiano da un lato il percorso, infatti, consentono di ricostruire il primo livello di costruzione del tessuto viario romano, chiamata al suo compimento strata perché formata da numerose stratificazioni di materiali diversi. Una volta giunti al Fosso delle Mole, altra discarica che annulla la bellezza del paesaggio circostante, l’Appia Antica di nuovo scompare, questa volta impropriamente inglobata dalle coltivazioni di un privato. Di fronte alla necessità di dover deviare dal percorso rettilineo stabilito dai Romani si ausculta un problema generale, che riguarda tutta l’Appia antica da Roma fino a Brindisi, inerente ai non calcolabili abusi subiti da una delle aree archeologiche più vincolate a livello urbanistico, paesistico e archeologico. Il tratto che prosegue fino a Le Castella riserva ulteriori caratteristiche sconfortanti: in questo tratto non solo cippi miliari, stele funebri, anfore e basole sono esposti all’interno di ville private, spesso visibili appena dietro una recinzione che sa di incarcerazione, ma soprattutto grandi frammenti del pregiato marmo pentelico, proveniente da una cava vicino ad Atene e lo stesso usato per il Partenone, sono degradati a banali elementi per la tenuta dei muri di contenimento della strada. Antonio Cederna (1921-1996), giornalista e ambientalista di caratura internazionale che si spese tutta la vita per la realizzare un unico parco archeologico dall’Appia Antica fino ai Fori Imperiali, negli anni Cinquanta denunciava lo stato di assedio subito dalla regina viarum: «i ruderi sono scaduti a miserabili comparse, hanno perduto la loro grandezza, la loro meravigliosa cornice di deserto e di silenzio, immeschiniti, corrosi, spellati».
Immagini ancora attuali, concordanti con l’incisiva impressione lasciata da Charles De Brosses (1709-1777) in coincidenza con il suo passaggio sul tratto veliterno dell’Appia Antica: «I contadini l’hanno squamata come un cardo». Una frase che condanna, forse più che l’opera dei contadini la volontà degli speculatori di spogliare il manto stradale antico per favorire una viabilità fluida, e al tempo stesso, tuttavia, che potrebbe suggerire uno stimolo per abbreviare le tempistiche della realizzazione del Parco archeologico dell’Appia Antica a Velletri.

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