Una chitarra e un poeta bastano per incidere sul cuore, come gli uomini primitivi nelle caverne, delle parole ordinate e armoniche che portano dentro di sè la potenza devastante e progressiva di un treno ad alta velocità. Disegnare messaggi, tra profezia e nostalgia, è in fondo il compito di un artista che dipingeva - come un bambino su un foglio - le sue melodie e le sue storie, struggenti e realistiche.
E in comune tra il bambino e il poeta sta proprio il pastello, Faber, che ha dato il nome al cantautore della Scuola Genovese nato un 18 febbraio qualsiasi del 1940. Il destino però è segnato, dal quartiere di Pegli ai palcoscenici, dopo un'infanzia passata nel pieno delle bombe della Seconda Guerra Mondiale, che costringono Fabrizio De Andrè a vivere da sfollato. Il conflitto continua sui banchi di scuola: i nemici sono i professori, in particolare quel Decio Pierantozzi che stentava a dare la sufficienza a quell'allievo strano, "estroverso, che lasciava i temi a metà".
Mentre il sole scivola, al di là delle dune, per violentare altre notti, è invece una carezza leggera la poesia di Faber che man mano, inizialmente incompresa, comincia a conquistare i cuori dei suoi ascoltatori, ammaliati da quelle melodie così dense e spartane, ma non prive di amore per la vita e per l'umanità a partire dallo spiccato interesse per gli emarginati e i bisognosi, che trovano la loro patria ideale in via del Campo. "La canzone di Marinella", incisa nel 1964, diventerà un vero manifesto della poetica deandreiana, mentre il tema fiabesco mistifica un fatto di cronaca realmente accaduto. La morte dell'amico e collega Luigi Tenco ispira "Preghiera in Gennaio", augurando il Paradiso in un commiato sentito verso lo sfortunato autore che dopo il suo gesto continua a far ascoltare al vento la sua voce. L'attenzione verso i subalterni caratterizza l'album "Tutti morimmo a stento", nel quale a farla da padroni sono tossicodipendenti, traviati, prostitute e tutti coloro che dovrebbero ispirate quella pietas agognata e altrettanto deviata nel senso ontologico del concetto.
Perfezionista ma schivo, De Andrè non ama i riflettori e ha quasi paura di esporsi davanti al pubblico nonostante continui ad indirizzargli dei testi impegnati che presuppongono una predisposizione culturale notevole, seppur al contempo fruibili da tutti per la naturale semplicità lessicale. Questa ansia da prestazione, quasi a confermare che anche i grandi sono fragili, viene tuttavia superata e al culmine del proprio successo personale il 27 agosto 1979 l'anonima sequestri sarda rapirà Fabrizio e la compagna, Dori Ghezzi, per tenerli prigionieri quattro mesi. L'esperienza segnerà il poeta e cantautore, liberato dopo il pagamento di un riscatto, e il memoriale della prigionia mostrerà ancora una volta quella pietà caratterizzante anche verso gli stolti carcerieri. La morte di Pasolini ispirerà De Andrè per la composizione di uno dei testi più lucidi che sintetizzano atrocemente e pienamente la parabola della "storia sbagliata" dell'intellettuale bolognese adottato da Roma, iniziata con la luna nel pozzo e finita con un fiume di inchiostro, spesso tristemente retorico o partigiano. Dal "Pescatore" a "Bocca di rosa", dalla "Cattiva strada" alla "Città vecchia", i titoli raffigurano le chiavi per entrare nel mondo di De Andrè, colorato e intriso di individualità pensanti, anticonvenzionali, storicamente sofferenti, eppure pullulanti di vita e di cose da dire, in una vitalità estrema e grandiosa. Anche Piero che va a morire tra i papaveri rossi si ferma a pensare e ad esprimere il suo riflessivo disagio, perchè è uomo, e nulla di umano gli è estraneo - in un diktat di terenziana memoria, anche se poi viene ucciso da un soldato disperato e da lui diverso solo per il colore della divisa. Cosa hanno in comune un giudice ridicolizzato e una Dolcenera senza cuore, oppure un Andrea smarrito e un Giordie dal destino segnato? Non semplicemente la stessa penna, o lo stesso pastello, ma l'analogo genio, che descrive storie di vita tra finzione e realtà, prediligendo uno sguardo magistralmente denso di pulsioni umane e ostinato, unico, affumicato da una sigaretta compagna di vita e d'ispirazione.
La diagnosi di carcinoma polmonare e la morte, l'11 gennaio 1999, hanno privato la poesia peninsulare di uno dei suoi più illustri e profondi esponenti contemporanei. Le sue canzoni, storie cantate, o pensieri versificati dall'inesorabile musicalità, restano accozzaglie di aforismi uno più veritiero dell'altro, di alta dignità, in una summa inimitabile di anarchia, pacifismo e libertinismo senza dimenticare il protagonista principale che è il cuore. Così l'auspicio oracolare di De Andrè, il quale continua a sperare "che la pietà non vi sia di vergogna" - come dichiarato nel "Recitativo" - si avvia a valorizzare il messaggio di Faber, e la sua incessante ricerca di sorrisi affaticati e amori sussurrati, felicità consumate e sentimenti fuorvianti. E quindi "l'amore ha l'amore come solo argomento, e il tumulto del cielo ha sbagliato momento".
Rocco Della Corte