Un grande artista, un compositore brillante, un personaggio dalla carriera musicale che parla da sé. Prima di tutto ciò, però, Vittorio Nocenzi è un uomo che ama parlare e sa farlo con cognizione di causa, stimolando i propri interlocutori fino a lasciarli a bocca aperta per la poliedricità e l'apertura mentale che emerge dai suoi discorsi.
Intervista a cura di Rocco Della Corte
con la collaborazione di Emanuela Treggiari
Intervista a cura di Rocco Della Corte
con la collaborazione di Emanuela Treggiari
Sarà lui, insieme al giornalista Alfredo Saitto, ai musicisti Antonio Censi, Antonella Mattacchioni, Sandro Crocetta, Pietro Caroleo, Giulio Salvatelli e Livio Salvatelli, a riportare in vita - tramite la sua straordinaria e vitale musica - Luigi Tenco a Velletri, il 18 febbraio, al Teatro Artemisio (inizio dell'evento fissato per le ore 18.00). Nocenzi ha rilasciato un'intervista all'Ufficio Stampa dell'Associazione Memoria '900 per testimoniare il suo impegno a favore di quel cantautore che, cinquant'anni fa, se n'è andato, raccontando tuttavia un tempo che non è poi così lontano, lontano.
Vittorio Nocenzi, a cinquant'anni dalla morte di Luigi Tenco partiamo dalla percezione che del cantautore si aveva nel contesto giovanile dell'epoca. Negli anni in cui Tenco raggiungeva il successo lei era uno studente del Liceo Scientifico di Velletri. Cosa ricorda di quegli anni e che clima c'era, tra i giovani, sia a livello musicale che a livello sociale?
Nel 1969 ci fu la prima Assemblea degli studenti del Liceo Mancinelli di Velletri. Presidente dell'Assemblea ero io. Erano i giorni dell'utopia, i giorni in cui da giovani si guardava al futuro con la convinzione di poterlo cambiare in meglio. Oggi, dopo quaranta e più anni, mi guardo intorno e vedo delle macerie di cui evidentemente siamo colpevoli noi. Abbiamo disatteso tutti i migliori sogni, non abbiamo saputo realizzare i fondamenti per una prospettiva decorosa, dignitosa. Allora c'era invece la certezza che sarebbe andato tutto bene. C'era una buona fede, noi vedevamo chiaramente cosa fosse sbagliato e cosa potesse essere migliorato. L'uomo in questo è insospettabilmente tetragono, nonostante le evidenze può intestardirsi negli errori. Ricordo via Paolina, Velletri, gli scioperi degli studenti. Una volta andai contro corrente bloccando uno sciopero: mi misi davanti al corteo intimando ai ragazzi di andare davanti al Ministero. Andammo tutti a Roma. C'era una consapevolezza del diritto alla dignità e del dovere di fare delle cose che fossero preludio alle conquiste, invece nel tempo per motivi politici, di opportunità, di populismo, di applausi facili, ci si è dimenticati di parlare anche dei doveri, è diventato tutto un diritto. Senza il dovere il diritto non esiste.
In questa panoramica come si può collocare il messaggio veicolato dalle canzoni e dalle musiche di Luigi Tenco?
Tenco metteva l'accento con la sua opera sulla dimensione esistenziale, la sua fu una spiritualità laica partecipata e condivisa dai giovani. La spiritualità non è solo delle religioni, è appannaggio di ogni essere umano che ha una sensibilità. Quando Tenco parlava d'amore in quel modo, era una dimensione spirituale e non solo sentimentale. Quella profondità parlava all'anima. Io ero innamorato di Tenco.
C'era la stessa buona fede, mista a consapevolezza, dei giovani, nei sentimenti cantati da Tenco?
Assolutamente sì, parlava come autentico e per questo era amato. Ricordo pomeriggi interi a sentire i suoi dischi, uscivo con la mia ragazza e lo ascoltavamo. Fu un amore a prima vista, poi da adulto ho capito perché e mi sono dato una motivazione da musicista, da compositore. Tra i cantautori era quello che aveva una ricchezza armonica nettamente superiore agli altri contemporanei. La tessitura degli accordi di Tenco non è comparabile.
Tenco viene spesso definito, a ragione, innovatore: perchè, in pochi motivi?
Personalmente amavo Tenco perché esprimeva veramente quello che deve esprimere un poeta. Non serve esibire un linguaggio forbito con termini inusuali, il poeta adopera le parole di tutti i giorni accostandole in maniera inusuale. Questo secondo me ha un valore superiore, la parola particolare già lascia un effetto diverso, ma è la parola che può usare chiunque in un modo inatteso che porta ad intuire poeticamente l'emozione. "Un giorno dopo l'altro la vita se ne va", ed è un luogo comune, poi come una bomba a mano arriva "e la speranza ormai è un'abitudine". Sperare per abitudine è come rinunciare al sogno, sentimento salvifico delle persone. Sperare è un anelito di passione e buona fede, di ingenuità forse ma slancio appassionato e generosità esistenziale. Se speri per abitudine sei morto e non te ne sei accorto, e lui aveva queste profondità originali. Con le parole di tutti i giorni arriva il cambio di prospettiva... questo era Tenco, un poeta che parlava all'anima con creatività e autorevolezza.
Tra le tante poesie, perché è meglio definirle in tal modo, qual è quella più rivoluzionaria secondo il suo punto di vista?
C'è un pezzo, tra i meno noti, che ho amato tanto, e mi sono ispirato ad esso anche con il Banco: "Ragazzo mio, un giorno ti diranno che tuo padre aveva per la testa grandi idee e in fondo non ha concluso proprio niente. Ma tu non credere, no, perché quando si alza il mare, gli uomini senza idee per primi vanno a fondo". Commovente. E' riuscito a incidere nella realtà e a cambiarla, avere grandi idee non è inutile, la verità non è solo pragmatismo e concretizzazione, ma intravedere vie d'uscita. Di questo pezzo di Tenco, per me il suo manifesto, ho fatto il mio credo personale.
E' un modo di vedere umanistico, filosofico o utopico? Oppure non c'è sfumatura netta e racchiude tutte e tre le cose?
Umanistico sì, filosofico sì, utopico dipende. Se è utopico nel senso di inutile e irraggiungibile no, se per utopico intendiamo la definizione che disse il mio amico regista argentino Fernando Siro a un giornalista sportivo, Eduardo Galeano invece dico di sì. Mi spiego: Galeano intervistando Siro gli chiese: ma a che serve l'orizzonte, se lo vedo lontano, mi avvicino di 10 km e si allontana di nuovo? La risposta di Siro fu che l'orizzonte serve a camminare. Questa è l'utopia, senza la quale non c'è orizzonte, non c'è qualcosa da raggiungere o conquistare per donarlo anche agli altri. L'utopia ti fa vivere meglio con i comportamenti, perché tendi a realizzarli, poi se ci riesci è una cronaca.
Quanto ha influito, col senno del poi, il messaggio di Tenco sulla rivoluzione sociale del '68 che voi avete vissuto in prima persona? E in qualche modo la sua tragica fine come fu recepita?
La sua fine fu un grandissimo dolore. L'idea del suicidio mi turba, come mi turba pensare di rinunciare alla certezza della vita che ci appartiene. Lui era un giovane abituato a sognare e vedere mortificati i propri sogni, quindi allenato al dolore e alla delusione. La sua morte non mi lascerà mai indifferente. Comunque, riguardo al '68, in Tenco non c'era alcun intento didattico o pedagogico, mi ha colpito come compositore perché so cosa vuol dire far sentire la propria musica, le aspettative che si hanno. E' come mettersi nudo, alla berlina. La storia di Tenco ci dimostra che non è stata una bocciatura, spesso gli esseri umani sono animali tremendi che dimenticano la loro sensibilità.
Secondo lei Tenco è stato sottovalutato, visto che poi come capitato a molti la tragica fine ha attratto interesse maggiore e ha marchiato il sentore comune sul personaggio?
L'opinione pubblica ha sicuramente banalizzato, ma chi ha pensato in questo modo non ha mai tentato di capire cosa vuol dire offrire musica all'altro. Io ho avuto la stessa percezione di aver paura di essere bocciato, nettamente, nei primi concerti del Banco del Muto Soccorso: mi sembrava una cosa oltraggiosa vedere certe reazioni nel pubblico, non per presunzione, ma perché ero un essere umano che si stava mettendo a nudo dando importanza al ritorno del pubblico. Aver provato da me queste sensazioni me lo fa amare ancora di più.
Oggi si cerca di strappare la lacrima cantando testi profondi che a una rilettura successiva sembrano banali, sentire un "Mi sono innamorato di te, perché non avevo niente da fare", che valore ha nel 2017?
Un valore dirompente. La forza poetica di Tenco è rimasta intatta. Quando parlo di poetica e canzone, distinguo. Sono due forme diverse, la canzone è diversa dalla poesia. La poesia nasce per la lettura, la canzone è un insieme di versi poetici per la musica.
La forza di Tenco si evince già dai titoli?
I titoli sono importantissimi, è la prima sintesi rappresentativa. Ogni titolo deve essere ponderato bene e ciò in Tenco avviene.
Quanto c'è dal punto di vista musicale, di Tenco, nella sua esperienza e in quella del Banco?
E' una domanda difficile. Consciamente non c'è niente. Inconsciamente di sicuro qualcosa ci sarà. Io penso che un compositore, o un artista in genere, è sempre come un registratore acceso. Anche il rumore del traffico può uscire fuori nel pianoforte, magari preferendo un accordo dissonante a uno romantico. I segni della vita sono tutta musica. Il commuoversi nell'ascoltare Tenco a 18 anni per riscoprirlo ad un'età matura e sentire ancora quel brivido è una cosa che ti condiziona, anche se non nell'immediato, e ti mette in una sintonia di linguaggio e di ricezione.
A livello di tematiche, Tenco può avere tra i tanti due filoni principali: uno amoroso o uno sociale. Il Banco del Mutuo Soccorso e Vittorio Nocenzi?
Io sono un ragazzo del '68, che incontra un altro ragazzo del '68, Francesco Di Giacomo, e i pezzi che abbiamo scritto insieme non potevano che partire da quel momento. Poi da adulti si cambia, ma credo che il confronto sul sociale e il patrimonio intimo siano la pietra che accende sempre il camino, che fa partire la scintilla. Tutto si gioca sul confronto tra lo spazio personale e quello degli altri, un conflitto che genera aberrazioni o reazioni, tra pubblico e privato... La comunità è entrata nei nostri testi anche quando partivano da storie individuali, perché la diversità - come diceva il mio amico Guido Zingari, professore di filosofia del linguaggio - è preziosa in quanto detentrice del tesoro che si chiama "possibilità di scoprire l'altro", il non conosciuto. Si cresce solo incontrando persone e circostanze diverse dall'usuale. In questa diversità non c'è solo il mistero dello sconosciuto, ma un potenziale di miglioramento. Io credo non ci sia un destino più primigenio nella natura umana che quello della conoscenza.
Quanto è facile, domanda ossimorica, superare la difficoltà di scrivere ed esporsi?
Non è mai facile, il primo giudice spietato di te stesso sei tu. Si è tentati dal non esprimersi, ma è troppo comodo. Ogni volta ci si rimette in gioco in un'avventura di conoscenza. La vita è restare affascinati dalla conoscenza, che implica scrivere una pagina di musica e pensare che sia la più bella che ti sia mai venuta da quando sei nato, oppure trattare sempre argomenti già trattati in modo diverso.
Esiste anche una necessità di scrittura, di musica, di composizione in un artista?
Si crea per necessità, mai con stato d'animo del superfluo. La difficoltà può esaltare, la costrizione del dover sintetizzare la psicologia di un momento invece uccide la fantasia. Se hai del talento, però, le difficoltà sono uno stimolo.